Il 4 novembre è la festa dei nostri "militi ignari"
Non
furono intrepidi eroi, né fulgidi esempi di patriottismo, né fanti
strappati alla vita contadina e operaia. Ma uomini inconsapevoli del
loro destino. E della loro missione
Si chiamava Francesco, veniva dal sud, aveva
vent'anni e una forte miopia. Non aveva uso di mondo e non conosceva
l'uso delle armi, era gentile e remissivo, di buone maniere, educato a
Roma nel collegio dei nobili ma vissuto nel paese natio, nel palazzo di
famiglia, tra la campagna e la vita serena della provincia, al riparo
dalla storia.
Non aveva mai viaggiato e si trovò con
una divisa addosso e un fucile tra le braccia, catapultato ai confini
estremi del nord a combattere per la patria contro l'impero
austroungarico nella prima guerra mondiale. Non tornò più a casa,
risultò poi disperso sul Carso nel '17 e mai si trovò il suo corpo, i
suoi genitori ne fecero una malattia. Fu uno dei tanti militi ignoti che
dettero la vita, e non da volontari, per allargare i confini della
patria. Andò in prima linea con l'aria di chi era capitato per pura
sventura, con la nostalgia di casa, l'estraneità alla causa e
l'incapacità di maneggiare fucili e mortai.
Sistemavo le carte di
famiglia lasciate da mio padre, e mi sono imbattuto in un plico calloso e
sformato, da cui fuorusciva una medaglia appesa a un logoro nastro
tricolore e una croce di guerra col nastro azzurro. C'è pure una terza
medaglia col nastro arcobaleno, come s'usa oggi per le bandiere della
pace...
Ho scartato l'involucro, sciolto i nodi dell'oblio e ho trovato
vergato da un inchiostro antico e da una doppia calligrafia rattrappita
uno straziante carteggio di quasi cent'anni fa. Riguardava un suo
fratello più grande, Francesco, partito per la Grande Guerra come altri
due suoi fratelli, combattenti motivati, e suo padre anziano, nato prima
dell'unità d'Italia. Ma lui è miope e cagionevole, non sa cosa sia
combattere per le terre irredente. Francesco scrive una lettera a suo
padre in cui narra i disagi, le sofferenze, le angherie che subisce.
«Carissimo Padre, maledetto il giorno che arrivai qui»... Suo padre
raccoglie la disperata richiesta di soccorso del figlio, chiede aiuto ai
deputati locali ma i militari sul fronte non se li filano. Scrive
allora al comando un accorato promemoria e decide di partire per il
fronte per strappare suo figlio al destino di guerra e di morte.
«Sofferente di malattie come rilevasi dal certificato del medico,
vedi l'elenco delle imperfezioni fisiche, ha otto diottrie... non ha mai
avuto da quando è alle armi, cioè da più di due anni, un solo giorno di
licenza... lo costringono a lavori ingrati, a trasportare balle... lo
strapazzano inviandolo sempre di scorta e ora perfino al fronte... gli
hanno fatto firmare che le ferite subite nella vita militare non sono
avvenute mentre era in servizio... lui sempre obbediente a tutto e verso
tutti... un colonnello gli ha tirato il naso facendoglielo sanguinare
dicendogli: tu non vuoi fare il soldato, tu non vuoi andare in prima
linea». Ma loro ce lo mandano e lui muore, da milite ignaro.
Non è una pagina epica di eroismo, nemmeno un esempio edificante di
patriottismo, semmai un caso patetico di umanissima fragilità e
inadeguatezza alla vita aspra delle trincee e del fronte. Ma è
struggente per lo stridente contrasto tra l'oggettiva e inesorabile
durezza del conflitto mondiale e la soggettiva e tenerissima dimensione
affettiva, domestica e locale. È il tentativo disperato di un padre e
una madre di salvare il loro figlio, tra suppliche e istanze per
esonerarlo dall'evento cruciale, adducendo sofferenze varie e
inattitudine alla vita, non solo militare... L'illusione di un padre,
notabile nel suo paese, di poter interloquire con le gerarchie militari e
muoverle a compassione, ponendo problemi umani troppo umani, o sperando
che la vita disarmata a cui era stato educato suo figlio, le premure di
una famiglia di provincia del profondissimo sud, possano trovare
udienza sensibile nei vertici militari, in piena guerra.
Trovo nel plico raccolte con meticoloso dolore le foto spettrali del
Carso, i luoghi dove Francesco perse la vita, e poi l'attestato solenne
firmato dal re Vittorio Emanuele che Francesco è «Morto per la patria»,
con le citazioni di Foscolo e di Virgilio a fianco dell'Italia turrita e
dell'angelo della morte che fregiano il diploma funebre. La prima
guerra mondiale riuscì a essere più crudele della seconda, un terribile
macello che unì l'Italia ma non partorì un mondo migliore. Da quella
guerra, oltre a milioni di morti, uscirono infatti sanguinose
rivoluzioni, regimi totalitari, odii ideologici, campagne sventrate,
economie collassate, vite mandate allo sbaraglio a combattere contro un
nemico ignoto. Furono per la prima volta coinvolte popolazioni civili
con la leva obbligatoria, poi le fucilazioni per diserzione e
insubordinazione, le ferite procurate per non andare a combattere...
Questo risvolto terribile della Grande Guerra non cancella ma accresce
l'ammirazione per gli eroi e gli interventisti, i volontari e i patrioti
che offrirono la loro vita per la propria patria, per la propria
civiltà. E non cancella l'abnegazione dei soldati italiani riconosciuta
anche dal nemico e da scrittori stranieri come Trevelyan, Wells, Kipling
(lo documenta Nicholas Farrell, coautore del libro Il compagno
Mussolini). Ma quell'ondata solleva «gli strati più antichi
dell'umanità» scrive Renato Serra caduto a Podgora: «Un movimento di
popoli interi strappati alle loro radici... Il bene di quelli che
restano non compensa il male abbandonato senza rimedio nell'eternità...
una perdita cieca, un dolore, uno sperpero, una distruzione enorme e
inutile».
Quella che ho raccontato non è la storia di intrepidi eroi, di gesta
epiche, di caduti per la patria che credevano in quel che facevano. E
non è nemmeno la storia, atroce anch'essa, di tanti poveri fanti
strappati alla vita contadina e operaia delle loro contrade e mandati a
morire per Trento e Trieste. È una storia ancora diversa, di uno scorcio
periferico d'Italia travolto dal conflitto mondiale. È la tragica
opposizione tra il mondo di ieri, come lo definì Stefan Zweig, quel
secolo decimonono col suo garbo e le sue ottuse delicatezze, e il '900,
secolo delle masse mobilitate, della guerra totale, dei coscritti, delle
rivoluzioni. Due epoche contigue ma incomunicanti, separate da una
linea di fuoco e di sangue. Ma la storia vive lo stridore di questi
lampanti anacronismi, non è solo quel grandioso affresco di condottieri
ed eventi, è anche l'ordito pietoso di tante vite oscure e sepolte.
C'è
la storia come gloria e la storia come catastrofe del piccolo mondo
antico. Ambedue si ritrovano, come il diritto e il rovescio, nell'epopea
del IV novembre. Fratelli d'Italia, anche se riluttanti. Serra: «Dietro
di me son tutti fratelli, anche se non li vedo e non li conosco bene». I nostri caduti per la "PATRIA" si ribellano
Non
furono intrepidi eroi, né fulgidi esempi di patriottismo, né fanti
strappati alla vita contadina e operaia. Ma uomini inconsapevoli del
loro destino. E della loro missione
Si chiamava Francesco, veniva dal sud, aveva vent'anni e una forte miopia. Non aveva uso di mondo e non conosceva l'uso delle armi, era gentile e remissivo, di buone maniere, educato a Roma nel collegio dei nobili ma vissuto nel paese natio, nel palazzo di famiglia, tra la campagna e la vita serena della provincia, al riparo dalla storia.
Non aveva mai viaggiato e si trovò con
una divisa addosso e un fucile tra le braccia, catapultato ai confini
estremi del nord a combattere per la patria contro l'impero
austroungarico nella prima guerra mondiale. Non tornò più a casa,
risultò poi disperso sul Carso nel '17 e mai si trovò il suo corpo, i
suoi genitori ne fecero una malattia. Fu uno dei tanti militi ignoti che
dettero la vita, e non da volontari, per allargare i confini della
patria. Andò in prima linea con l'aria di chi era capitato per pura
sventura, con la nostalgia di casa, l'estraneità alla causa e
l'incapacità di maneggiare fucili e mortai.
Sistemavo le carte di famiglia lasciate da mio padre, e mi sono imbattuto in un plico calloso e sformato, da cui fuorusciva una medaglia appesa a un logoro nastro tricolore e una croce di guerra col nastro azzurro. C'è pure una terza medaglia col nastro arcobaleno, come s'usa oggi per le bandiere della pace...
Ho scartato l'involucro, sciolto i nodi dell'oblio e ho trovato vergato da un inchiostro antico e da una doppia calligrafia rattrappita uno straziante carteggio di quasi cent'anni fa. Riguardava un suo fratello più grande, Francesco, partito per la Grande Guerra come altri due suoi fratelli, combattenti motivati, e suo padre anziano, nato prima dell'unità d'Italia. Ma lui è miope e cagionevole, non sa cosa sia combattere per le terre irredente. Francesco scrive una lettera a suo padre in cui narra i disagi, le sofferenze, le angherie che subisce. «Carissimo Padre, maledetto il giorno che arrivai qui»... Suo padre raccoglie la disperata richiesta di soccorso del figlio, chiede aiuto ai deputati locali ma i militari sul fronte non se li filano. Scrive allora al comando un accorato promemoria e decide di partire per il fronte per strappare suo figlio al destino di guerra e di morte.
«Sofferente di malattie come rilevasi dal certificato del medico, vedi l'elenco delle imperfezioni fisiche, ha otto diottrie... non ha mai avuto da quando è alle armi, cioè da più di due anni, un solo giorno di licenza... lo costringono a lavori ingrati, a trasportare balle... lo strapazzano inviandolo sempre di scorta e ora perfino al fronte... gli hanno fatto firmare che le ferite subite nella vita militare non sono avvenute mentre era in servizio... lui sempre obbediente a tutto e verso tutti... un colonnello gli ha tirato il naso facendoglielo sanguinare dicendogli: tu non vuoi fare il soldato, tu non vuoi andare in prima linea». Ma loro ce lo mandano e lui muore, da milite ignaro.
Non è una pagina epica di eroismo, nemmeno un esempio edificante di patriottismo, semmai un caso patetico di umanissima fragilità e inadeguatezza alla vita aspra delle trincee e del fronte. Ma è struggente per lo stridente contrasto tra l'oggettiva e inesorabile durezza del conflitto mondiale e la soggettiva e tenerissima dimensione affettiva, domestica e locale. È il tentativo disperato di un padre e una madre di salvare il loro figlio, tra suppliche e istanze per esonerarlo dall'evento cruciale, adducendo sofferenze varie e inattitudine alla vita, non solo militare... L'illusione di un padre, notabile nel suo paese, di poter interloquire con le gerarchie militari e muoverle a compassione, ponendo problemi umani troppo umani, o sperando che la vita disarmata a cui era stato educato suo figlio, le premure di una famiglia di provincia del profondissimo sud, possano trovare udienza sensibile nei vertici militari, in piena guerra.
Trovo nel plico raccolte con meticoloso dolore le foto spettrali del Carso, i luoghi dove Francesco perse la vita, e poi l'attestato solenne firmato dal re Vittorio Emanuele che Francesco è «Morto per la patria», con le citazioni di Foscolo e di Virgilio a fianco dell'Italia turrita e dell'angelo della morte che fregiano il diploma funebre. La prima guerra mondiale riuscì a essere più crudele della seconda, un terribile macello che unì l'Italia ma non partorì un mondo migliore. Da quella guerra, oltre a milioni di morti, uscirono infatti sanguinose rivoluzioni, regimi totalitari, odii ideologici, campagne sventrate, economie collassate, vite mandate allo sbaraglio a combattere contro un nemico ignoto. Furono per la prima volta coinvolte popolazioni civili con la leva obbligatoria, poi le fucilazioni per diserzione e insubordinazione, le ferite procurate per non andare a combattere... Questo risvolto terribile della Grande Guerra non cancella ma accresce l'ammirazione per gli eroi e gli interventisti, i volontari e i patrioti che offrirono la loro vita per la propria patria, per la propria civiltà. E non cancella l'abnegazione dei soldati italiani riconosciuta anche dal nemico e da scrittori stranieri come Trevelyan, Wells, Kipling (lo documenta Nicholas Farrell, coautore del libro Il compagno Mussolini). Ma quell'ondata solleva «gli strati più antichi dell'umanità» scrive Renato Serra caduto a Podgora: «Un movimento di popoli interi strappati alle loro radici... Il bene di quelli che restano non compensa il male abbandonato senza rimedio nell'eternità... una perdita cieca, un dolore, uno sperpero, una distruzione enorme e inutile».
Quella che ho raccontato non è la storia di intrepidi eroi, di gesta epiche, di caduti per la patria che credevano in quel che facevano. E non è nemmeno la storia, atroce anch'essa, di tanti poveri fanti strappati alla vita contadina e operaia delle loro contrade e mandati a morire per Trento e Trieste. È una storia ancora diversa, di uno scorcio periferico d'Italia travolto dal conflitto mondiale. È la tragica opposizione tra il mondo di ieri, come lo definì Stefan Zweig, quel secolo decimonono col suo garbo e le sue ottuse delicatezze, e il '900, secolo delle masse mobilitate, della guerra totale, dei coscritti, delle rivoluzioni. Due epoche contigue ma incomunicanti, separate da una linea di fuoco e di sangue. Ma la storia vive lo stridore di questi lampanti anacronismi, non è solo quel grandioso affresco di condottieri ed eventi, è anche l'ordito pietoso di tante vite oscure e sepolte.
C'è la storia come gloria e la storia come catastrofe del piccolo mondo antico. Ambedue si ritrovano, come il diritto e il rovescio, nell'epopea del IV novembre. Fratelli d'Italia, anche se riluttanti. Serra: «Dietro di me son tutti fratelli, anche se non li vedo e non li conosco bene». I nostri caduti per la "PATRIA" si ribellano
Si chiamava Francesco, veniva dal sud, aveva vent'anni e una forte miopia. Non aveva uso di mondo e non conosceva l'uso delle armi, era gentile e remissivo, di buone maniere, educato a Roma nel collegio dei nobili ma vissuto nel paese natio, nel palazzo di famiglia, tra la campagna e la vita serena della provincia, al riparo dalla storia.
Sistemavo le carte di famiglia lasciate da mio padre, e mi sono imbattuto in un plico calloso e sformato, da cui fuorusciva una medaglia appesa a un logoro nastro tricolore e una croce di guerra col nastro azzurro. C'è pure una terza medaglia col nastro arcobaleno, come s'usa oggi per le bandiere della pace...
Ho scartato l'involucro, sciolto i nodi dell'oblio e ho trovato vergato da un inchiostro antico e da una doppia calligrafia rattrappita uno straziante carteggio di quasi cent'anni fa. Riguardava un suo fratello più grande, Francesco, partito per la Grande Guerra come altri due suoi fratelli, combattenti motivati, e suo padre anziano, nato prima dell'unità d'Italia. Ma lui è miope e cagionevole, non sa cosa sia combattere per le terre irredente. Francesco scrive una lettera a suo padre in cui narra i disagi, le sofferenze, le angherie che subisce. «Carissimo Padre, maledetto il giorno che arrivai qui»... Suo padre raccoglie la disperata richiesta di soccorso del figlio, chiede aiuto ai deputati locali ma i militari sul fronte non se li filano. Scrive allora al comando un accorato promemoria e decide di partire per il fronte per strappare suo figlio al destino di guerra e di morte.
«Sofferente di malattie come rilevasi dal certificato del medico, vedi l'elenco delle imperfezioni fisiche, ha otto diottrie... non ha mai avuto da quando è alle armi, cioè da più di due anni, un solo giorno di licenza... lo costringono a lavori ingrati, a trasportare balle... lo strapazzano inviandolo sempre di scorta e ora perfino al fronte... gli hanno fatto firmare che le ferite subite nella vita militare non sono avvenute mentre era in servizio... lui sempre obbediente a tutto e verso tutti... un colonnello gli ha tirato il naso facendoglielo sanguinare dicendogli: tu non vuoi fare il soldato, tu non vuoi andare in prima linea». Ma loro ce lo mandano e lui muore, da milite ignaro.
Non è una pagina epica di eroismo, nemmeno un esempio edificante di patriottismo, semmai un caso patetico di umanissima fragilità e inadeguatezza alla vita aspra delle trincee e del fronte. Ma è struggente per lo stridente contrasto tra l'oggettiva e inesorabile durezza del conflitto mondiale e la soggettiva e tenerissima dimensione affettiva, domestica e locale. È il tentativo disperato di un padre e una madre di salvare il loro figlio, tra suppliche e istanze per esonerarlo dall'evento cruciale, adducendo sofferenze varie e inattitudine alla vita, non solo militare... L'illusione di un padre, notabile nel suo paese, di poter interloquire con le gerarchie militari e muoverle a compassione, ponendo problemi umani troppo umani, o sperando che la vita disarmata a cui era stato educato suo figlio, le premure di una famiglia di provincia del profondissimo sud, possano trovare udienza sensibile nei vertici militari, in piena guerra.
Trovo nel plico raccolte con meticoloso dolore le foto spettrali del Carso, i luoghi dove Francesco perse la vita, e poi l'attestato solenne firmato dal re Vittorio Emanuele che Francesco è «Morto per la patria», con le citazioni di Foscolo e di Virgilio a fianco dell'Italia turrita e dell'angelo della morte che fregiano il diploma funebre. La prima guerra mondiale riuscì a essere più crudele della seconda, un terribile macello che unì l'Italia ma non partorì un mondo migliore. Da quella guerra, oltre a milioni di morti, uscirono infatti sanguinose rivoluzioni, regimi totalitari, odii ideologici, campagne sventrate, economie collassate, vite mandate allo sbaraglio a combattere contro un nemico ignoto. Furono per la prima volta coinvolte popolazioni civili con la leva obbligatoria, poi le fucilazioni per diserzione e insubordinazione, le ferite procurate per non andare a combattere... Questo risvolto terribile della Grande Guerra non cancella ma accresce l'ammirazione per gli eroi e gli interventisti, i volontari e i patrioti che offrirono la loro vita per la propria patria, per la propria civiltà. E non cancella l'abnegazione dei soldati italiani riconosciuta anche dal nemico e da scrittori stranieri come Trevelyan, Wells, Kipling (lo documenta Nicholas Farrell, coautore del libro Il compagno Mussolini). Ma quell'ondata solleva «gli strati più antichi dell'umanità» scrive Renato Serra caduto a Podgora: «Un movimento di popoli interi strappati alle loro radici... Il bene di quelli che restano non compensa il male abbandonato senza rimedio nell'eternità... una perdita cieca, un dolore, uno sperpero, una distruzione enorme e inutile».
Quella che ho raccontato non è la storia di intrepidi eroi, di gesta epiche, di caduti per la patria che credevano in quel che facevano. E non è nemmeno la storia, atroce anch'essa, di tanti poveri fanti strappati alla vita contadina e operaia delle loro contrade e mandati a morire per Trento e Trieste. È una storia ancora diversa, di uno scorcio periferico d'Italia travolto dal conflitto mondiale. È la tragica opposizione tra il mondo di ieri, come lo definì Stefan Zweig, quel secolo decimonono col suo garbo e le sue ottuse delicatezze, e il '900, secolo delle masse mobilitate, della guerra totale, dei coscritti, delle rivoluzioni. Due epoche contigue ma incomunicanti, separate da una linea di fuoco e di sangue. Ma la storia vive lo stridore di questi lampanti anacronismi, non è solo quel grandioso affresco di condottieri ed eventi, è anche l'ordito pietoso di tante vite oscure e sepolte.
C'è la storia come gloria e la storia come catastrofe del piccolo mondo antico. Ambedue si ritrovano, come il diritto e il rovescio, nell'epopea del IV novembre. Fratelli d'Italia, anche se riluttanti. Serra: «Dietro di me son tutti fratelli, anche se non li vedo e non li conosco bene». I nostri caduti per la "PATRIA" si ribellano