venerdì 9 aprile 2010

Colonnello Gianfranco Chiti

Gianfranco Chiti nasce a Cignese in provincia di Novara il 6 maggio 1921. Frequenta il Collegio militare di Roma prima e l'81° corso dell'Accademia di fanteria e cavalleria di Modena poi.

Durante gli anni della seconda guerra mondiale con il grado di sottotenente viene assegnato al reggimento granatieri. Da ufficiale è combattente sul fronte greco-albanese e sul fronte russo, prima nei ranghi del reparto aviotrasportato (1939) e poi inquadrato nel XXXII battaglione controcarro autocarrato Granatieri di Sardegna (in Russia dal giugno 1942 all'aprile 1943).

E' proprio con questo reparto che vive la tremenda ritirata di Russia. Durante il conflitto mondiale è ferito due volte e per il servizio svolto nella steppa russa, il sottotenente in servizio permanente effettivo dei granatieri Gianfranco Chiti merita una medaglia di bronzo al valor militare - anche per aver riportato a casa gran parte dei suoi granatieri - con la seguente motivazione:

"Comandante di plotone cannoni da 47/32 attaccato da ingenti forze nemiche respingeva più volte col tiro preciso dei suoi pezzi le masse avversarie attaccanti, cagionando loro perdite gravissime. Esaurite le munizioni e ricevuto dal proprio Comandante di reparto l'ordine di ripiegare con i resti della Compagnia su posizione prestabilita e trovata la strada sbarrata da superiori forze avversarie, munite di numerose armi automatiche, si metteva alla testa di un animoso gruppo, le attaccava decisamente con bombe a mano, e le metteva in fuga, dopo averle decimate, aprendo la via al proprio reparto e facilitando il movimento delle altre forze che seguivano. Ansa di Verch Mamon (fronte russo), 16 dicembre 1942".

Alla fine del secondo conflitto mondiale, dopo essere stato per circa sette anni in Somalia, è nuovamente inquadrato nel 1° reggimento Granatieri di Sardegna dove riveste numerosi incarichi di comando ai vari livelli tra i quali quello di comandante del IV battaglione meccanizzato di stanza a Civitavecchia (1966-1967) e quello di vice comandante di reggimento (1968).

Dopo un breve periodo di servizio svolto presso il comando Regione militare centrale di Roma e in seguito alla promozione al grado di colonnello assume il comando della neo costituita Scuola sottufficiali di Viterbo.

Nel 1978, già generale e dopo quaranta anni di carriera, decide di lasciare i bianchi alamari per intraprendere una nuova strada: quella del sacerdozio. Padre Chiti entra nel convento San Mauro dei Cappuccini, situato nei pressi di Rieti, dove studia teologia e dove prende i voti come frate minore, nell'ordine dei Cappuccini di San Francesco.

Nel 1982 riceve l'ordinazione sacerdotale nel Duomo di Rieti. Nel 1991 è comandato a Orvieto presso il vecchio convento di San Crispino. Una struttura, quella del convento, che fra' Gianfranco, grazie all'aiuto della provvidenza e di tantissimi amici granatieri e non sparsi per l'Italia e chiamati a raccolta, ha saputo far risorgere sia come opera architettonica e ambientale ridonata all'orvietano, sia come pura oasi di meditazione e raccoglimento spirituale.

I suoi punti di riferimento sono sempre stati indirizzati verso la fede in Dio e negli ideali nei quali si identificava. Quella voce interiore che lo chiamava alla gloria di Dio lo seguiva sin da piccolo, ma la sua vocazione diceva di averla avuta una volta tornato dal fronte russo dove "morire a vent'anni era naturale come nascere". Il suo incitamento era quello di stare accanto ai giovani. La sua missione era quella di essere vicino a tutti, dando quello che aveva: sostegno morale, speranza nella fede e nella provvidenza.

Era sempre presente con tutti, soprattutto con i suoi granatieri che manteneva sempre nel cuore e dei quali parlava con prorompente felicità specialmente in occasione della celebrazione della Santa Messa in suffragio di don Alberto Genovese Duca di San Pietro. La funzione religiosa si tiene ogni anno presso la Basilica di Santa Maria degli Angeli a Roma per commemorare e ricordare Alberto Genovese, patrizio sardo, che alla fine del 1700 elargì all'allora reggimento Cacciatori di Sardegna un lascito di 120.000 lire vecchie di Piemonte.

Padre Chiti, in seguito a un incidente stradale, è stato ricoverato presso il policlinico militare Celio di Roma dove è morto il 20 novembre 2004 alle ore 08:30. I funerali sono stati officiati il 22 novembre nel Duomo di Orvieto. La salma è stata tumulata il 23 novembre nel Cimitero di Pesaro.

Tra quanti hanno scritto di lui ricordiamo le parole di Stefania Tomba: "Non c'è persona che dopo averlo conosciuto non l'abbia amato e cercato in un momento di gioia o di disperazione. Perché da quel gigante burbero e buono arrivava sempre una parola e non per forza dolce, però giusta. Un padre spirituale mai giudice, un amico severo ma infinitamente buono".

Città di Viterbo

Viterbo Città del Lazio settentrionale e capoluogo di provincia. Sorge ai piedi dei Monti Cimini ed il nucleo storico si distende sopra un pianoro ondulato, ad un’altitudine media di 350 metri, tra i Colli di San Lorenzo, San Francesco, dei Tignosi e di Pianoscarano. E’ attraversata dal Torrente Urcionio, in gran parte coperto, e dal Torrente Mola che, prima di gettarsi nel primo, si congiunge a quello di Paradosso.

Viterbo si trova al centro di una ricca campagna, a 35 Km. dal Mar Tirreno e la sua famosa Tarquinia, a 30 Km. dal Lago di Bolsena con l’omonima cittadina ed a 15 Km. dal Lago di Vico con la vicina Caprarola ed il suo Palazzo Farnese.
Viterbo è unita a Roma dalla Strada Cassia e Strada Cimina (circa km. 80), da due ferrovie e da un efficiente servizio di autopullman. L’antica Città di Viterbo è ancor oggi racchiusa da possenti mura in peperino la cui costruzione è iniziata nel 1095 e completata nel 1268. Sono alte oltre dieci metri, con torri ben conservate e porte medievali ancora intatte; il nucleo di Viterbo ha mantenuto l’aspetto medievale in particolare nel quartiere di San Pellegrino, con palazzi e torri del XIII secolo. Il più importante complesso monumentale della città di Viterbo è indubbiamente il Palazzo Papale sul Colle del Duomo che rappresenta un’insigne testimonianza di architettura gotica, con bifore, merli, archi rampanti; è ornato da una splendida loggia sostenuta da una volta, mentre la piazza è completata dalla cattedrale con facciata rinascimentale e dal suo bel campanile trecentesco. Famosissime sono anche le numerose fontane “a fuso” che ornano le strade e le piazze della Città di Viterbo, risalenti per lo più allo stesso periodo. Altri monumenti importanti a Viterbo sono la Rocca Albornoz, sede del Museo Nazionale e la Chiesa Santa Maria della Verità, al cui fianco è il Museo Civico, con importanti testimonianze della storia della città di Viterbo; poi Palazzo Farnese, Chigi, del Podestà e del Comune, con la sua torre alta ben 44 metri.
Nei dintorni di Viterbo si trovano la Chiesa di S.Maria della Quercia, armoniosa costruzione rinascimentale, la Villa Lante di Bagnaia, disegnata dal Vignola, le rovine romane di Ferento e quelle etrusche di Castel D’Asso. Le origini di Viterbo traspaiono dai reperti archeologici che sono stati ritrovati nei secoli, indicanti l’esistenza, fin dai primordi del neolitico, di una popolazione etrusca autoctona: intorno alla città di Viterbo, i ritrovamenti al Rinaldone e le tombe del Riello ne sono la testimonianza.
Nell’VIII secolo dell’era cristiana, il castrum viterbii, era questo il suo nome, attirò l’attenzione di re Desiderio, ultimo re dei Longobardi che,volendo invadere il Ducato di Roma, venne qui con un forte esercito, fortificò la città di Viterbo con mura e possenti torri e vi fece la sua base, da cui partire per la conquista della città eterna.
Fu però atterrito dalle scomuniche inviategli dal Papa Adriano I, ma forse anche dall’esercito di Carlo Magno, re dei Franchi, che il Papa aveva chiamato in aiuto; abbandonò così i suoi propositi di conquista e risalì velocemente verso la Toscana.
La Città di Viterbo ne trasse molti benefici, in quanto, fortificata come era, attirò gente dai borghi vicini ed anche molti longobardi decisero di rimanervi. Viterbo cominciò così ad acquisire importanza politica e militare su tutto il territorio e ad ingrandirsi notevolmente.
Nei secoli successivi la città di Viterbo fronteggiò le scorrerie dei Turchi, che si erano impadroniti di Civitavecchia e quelle dei Normanni. Nel 1148 la città di Viterbo si costituì in libero Comune, promulgando nel 1251 il proprio Statuto, uno dei primi esempi in Italia. A Viterbo, chiamata ancora oggi la Città dei Papi,vennero tenuti nel XIII secolo diversi conclavi (riunione dei cardinali per la nomina del Papa), tra cui quello più lungo che la storia ricordi; anzi la stessa parola conclave è stata adoperata per la prima volta quando i viterbesi tennero chiusi cum clave (a chiave), appunto nel Palazzo Papale, i cardinali perché si affrettassero ad eleggere il Papa.Durante le lotte tra Papato ed Impero, la città di Viterbo ebbe alterne vicende, l’imperatore Federico II le concesse vari privilegi, tra cui quello di coniare moneta; Viterbo divenne capoluogo del Patrimonio di San Pietro, cioè di tutti i territori donati alla Chiesa; Viterbo fu eretta sede vescovile nel 1192. La storia ci riferisce che fino al XIV secolo vennero intraprese continue lotte per la supremazia del territorio di Viterbo, prima tra le Famiglie più importanti, poi contro Roma ed infine contro gli Imperatori. Fu una guerra continua per l’acquisizione dei villaggi vicini e per il predominio sulla Città di Viterbo.
Nei secoli successivi Viterbo ritornò sotto il dominio di Roma, seguendone da allora le sorti. Viterbo continuò ad attrarre visitatori da tutto il mondo, non solo come tappa obbligata sulla Via Francigena che dall’Inghilterra, attraverso la Francia, portava i pellegrini a Roma verso la Tomba di San Pietro, ma perché la fama dei miracoli di una Santa fanciulla di nome Rosa, protettrice della Città, attirava presso il suo monastero imperatori, capi di stato e persone di ogni rango. Viterbo deve la sua importanza anche alle sue acque sorgive minerali che sgorgano nei dintorni della Città e l’hanno resa famosa fin dall’antichità per le sue acque sulfuree che hanno alimentato le numerose terme etrusche e romane, i cui ruderi sono sparsi sul territorio. Attualmente leterme di viterbo, con l’acqua che sgorga alla sorgente del Bulicame a 52°C, sono in funzione degli stabilimenti termali dotati di alberghi e sofisticate attrezzature.


Preghiera del soldato

Signore Iddio, che hai costituito di molti popoli l' umana famiglia, da Te creata e redenta, guarda benigno noi, che abbiamo lasciato le nostre case per servire l' Italia.

Aiutaci, Signore, affinché, con la forza della Tua fede, siamo capaci di affrontare fatiche e pericoli in generosa fraternità d' intenti, offrendo alla Patria la nostra pronta obbedienza, la nostra serena dedizione.

Fa che sentiamo ogni giorno, nella voce del dovere che ci guida, l' eco della Tua voce; fa che siamo d' esempio a tutti i cittadini nella fedeltà ai Tuoi comandamenti, alla Tua Chiesa e nell' osservanza delle leggi dello Stato.

Dona, o Signore, il riposo eterno ai nostri morti ed ai caduti di tutte le guerre. Concedi ai popoli la pace nella giustizia e nella libertà e che l' Italia nostra, stimata ed amata nel mondo, meriti la protezione Tua e la materna custodia di Maria anche in virtù della concordia operosa dei suoi figli.

Amen



Futuri Comandanti



Storia




STORIA DELLA SCUOLA


La prima Scuola destinata a formare i Sottufficiali in servizio permanente di tutte le Armi dell'Esercito sorse il 1°luglio 1888 a Caserta. Dal 1° luglio 1888 al 30 settembre 1895 la Scuola di Caserta formò 1283 Sottufficiali delle varie armi, dando loro una comune e solida preparazione di base. Successivamente le aumentate esigenze organiche dell'Esercito imposero un maggior gettito annuale ed un più rapido ciclo formativo.
Di conseguenza sorsero, in sostituzione della Scuola di Caserta, varie altre Scuole alle quali venne affidata la specifica preparazione degli Allievi Sottufficiali già destinati alle singole Armi.
Tale sistema venne anche adottato nell'intervallo tra la prima e la seconda guerra mondiale, durante il quale funzionarono le Scuole Allievi Sottufficiali di Milano, Modena, Verona, Pola, Rieti, Casagiove e Nocera Inferiore. Dopo il secondo conflitto mondiale vennero istituite nel maggio 1948, a Spoleto, la Scuola Allievi Sottufficiali Ordinari e nel 1951, a Rieti, la Scuola Allievi Sottufficiali Specializzati.
Nel 1965, nell'intento di assicurare ai Sottufficiali in servizio permanente una solida base di preparazione ed allo scopo di elevare il tono ed il prestigio della categoria, lo Stato Maggiore dell'Esercito dispose l'unificazione del ciclo formativo per tutti gli Allievi Sottufficiali, destinati ad incarichi di comando o di specializzazione, e la creazione della nuova Scuola Allievi Sottufficiali di Viterbo, quale unico Istituto formativo di futuri Sottufficiali in servizio permanente dell'Esercito.
Il nuovo ciclo formativo ha avuto pratica attuazione dal 10 gennaio 1966 e si prefigge lo scopo di dare ai Sottufficiali, in armonica sintesi, una soddisfacente base culturale, una adeguata formazione spirituale e fisica e la necessaria preparazione tecnico-professionale.
Nel 1996, con l'entrata in vigore del Decreto Legislativo n. 196 del 12 Maggio 1995 "Norme concernenti il riordino dei ruoli, modifica alle norme di reclutamento, stato ed avanzamento del personale non direttivo delle Forze Armate", si è realizzata una nuova trasformazione della Scuola ed ha preso il via un nuovo iter formativo del personale. In particolare con il primo Corso Allievi Marescialli iniziato il mese di ottobre del 1998, l'Istituto è diventato responsabile della formazione dei Maresciali desinati ad assumere nell' Esercito del 2000, la prestigiosa attribuzione di comantante di plotone di tutte le unità operative e logistiche della Forza Armata.La Scuola tramite i Reggimenti dipendenti dislocati a Montorio Veronese, Ascoli Piceno, Sora, Cassino e Barletta, ha in oltre il compito della formazione dei Sergenti, dei Volontari in Servizio Permanente (VSP) e dei Volontari in Ferma Breve (VFB).

Il nostro Battaglione






Foto ricordo









Il soldato italiano





Negli anni '90 il mondo scopre il valore del soldato italiano

Da quando circa venti anni orsono – ai primi degli anni ottanta – il Governo italiano decise di impiegare un contingente dell’Esercito in Libano in missione di pace, si può dire che sia stata fatta molta strada in questo senso. Fino ad allora le Forze armate italiane avevano fornito un contributo alla distensione solo con piccoli numeri di ufficiali osservatori dell’Onu e altre missioni di scarsa rilevanza in ambito mondiale.

Da allora in poi, superate le diffidenze degli eserciti "guerrieri" occidentali (Regno Unito, Stati Uniti, Francia) la credibilità del soldato italiano – quello di "Tutti a casa" per intenderci – è cresciuta nella considerazione internazionale lasciandosi alle spalle l’immagine iconografica del bravo figlio di mamma amante più di pizza, spaghetti e donne che non del proiettile calibro 7,62 del fucile d’ordinanza.

A questa crescita hanno contribuito in modo determinante gli eventi del novembre 1989 (Caduta del muro di Berlino) e le sue conseguenze. Tra queste, il nuovo concetto strategico dell’Alleanza atlantica, necessaria risposta occidentale agli avvenimenti che coinvolsero il Centro e l’Est europeo. Con la nuova strategia della Nato, agli eserciti alleati venivano assegnati nuovi compiti, tra cui quello che più si è attagliato alla natura del soldato italiano: il mantenimento della pace.

A questo punto, forse è bene precisare al lettore che l’impiego del termine "soldato" è un’esigenza di sintesi e il suo significato si estende a tutti gli ufficiali, sottufficiali e militari di truppa dell’Esercito, della Marina, dell’Aeronautica, dei Carabinieri e della Guardia di Finanza. E’ negli anni novanta che l’immagine delle Forze Armate italiane ha ricevuto l’impulso più significativo nella direzione della credibilità mondiale. La Somalia, il Kurdistan, la Bosnia hanno sempre visto impiegati tra i primi i nostri soldati e sempre in prima linea.

Riteniamo, tuttavia, che il culmine sia stato raggiunto in occasione dell’operazione "Alba", prima - e unica fino ad ora – operazione multinazionale pianificata dai nostri Stati maggiori e condotta da un generale italiano. Perfino l’autorevole New York Times, che all’inizio aveva criticato fortemente la Forza Multinazionale di Protezione, pubblicando un articolo che accusava i soldati di comportarsi come dei "boy scout", si dovette ricredere riconoscendo che il successo dell’operazione era dovuto proprio alla impostazione datale dalla leadership italiana.

Oggi i soldati italiani sono in Albania, Algeria, Bosnia, Congo, Croazia, Egitto, Guatemala, India, Irak, Israele, Kossovo, Kuwait, Libano, Marocco, Pakistan, Siria. L’Aeronautica militare italiana, in Kossovo, ha costruito dal nulla un aeroporto a Djakovica e ne ha il controllo; dal 1° luglio ha anche il controllo dell’aeroporto internazionale di Pristina. Nel mese di ottobre , il comando delle truppe della KFOR sarà assunto da un generale a tre stelle italiano. Oltre settemila uomini, tutti rispettati proprio per quel loro modo di essere soldati.

Elmetto, giubbotto antiproiettile, arma carica, soldati che pattugliano le zone più impervie, che aprono al fuoco se necessario, ma che sanno anche come si fa a prendere un bimbo in braccio o accudire un vecchio. Soldati che sanno maneggiare le armi ma che le sanno impiegare per lo scopo più nobile: la Pace. E’ difficile oggi trovare un soldato che non abbia svolto almeno una missione all’estero. Oggi i soldati italiani non sono più "tutti a casa".


Storia della Bandiera Italiana


Costituzione italiana, articolo 12
"La bandiera della repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni.”. 4 novembre 2001: il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi celebra il 140° anniversario dell' unità nazionale a San Martino della Battaglia, con le seguenti parole: "Adoperiamoci perchè in ogni famiglia, in ogni casa, ci sia un tricolore a testimoniare i sentimenti che ci uniscono fin dai giorni del glorioso Risorgimento. Il tricolore non è una semplice insegna di Stato, è un vessillo di libertà conquistata da un popolo che si riconosce unito, che trova la sua identità nei principi di fratellanza, di eguaglianza, di giustizia. Nei valori della propria storia e civiltà.

La Bandiera Italiana
Nome: Tricolore
Professione: bandiera nazionale italiana
Data di nascita: 7 gennaio 1797
Luogo di nascita: Reggio Emilia
Esperienze: 1797: impiegato presso il Parlamento della Repubblica Cispadana.
1797-1814: adottato dal Regno Italico.
1831: emblema della Giovine Italia di Giuseppe Mazzini.
1834: adottato dalle truppe che tentarono di invadere la Savoia.
1848, marzo: durante le Cinque Giornate di Milano il re di Sardegna Carlo Alberto assicura al Governo provvisorio lombardo che le sue truppe, pronte a venire in aiuto per la prima guerra d'indipendenza, avrebbero marciato sotto le insegne del Tricolore.
1848: adottato dalle milizie borboniche e papali inviate in soccorso dei Lombardi, da Venezia e dal Governo insurrezionale della Sicilia.
12 febbraio 1849: adottato dalla Repubblica Romana.
14 marzo 1861: proclamato il Regno d'Italia. La bandiera continua ad essere, per consuetudine il Tricolore.
24 settembre 1923: il Regio Decreto n. 2072, lo adotta come bandiera nazionale.
2 giugno 1946: nasce la Repubblica Italiana.
1947: il Tricolore è introdotto nella Costituzione repubblicana

Significato dei Colori
Verde per Il colore delle nostre pianure. (TC 17-6153)
Bianco per La neve delle nostre cime. (TC 11-0601)
Rosso per Il sangue dei nostri caduti. (TC 18-1662)

Perchè Tricolore
La bandiera italiana è una variante della bandiera della rivoluzione francese, nella quale fu sostituito l'azzurro con il verde che, secondo il simbolismo massonico, significava la natura ed i diritti naturali (uguaglianza e libertà). In realtà i primi a ideare la bandiera italiana sono stati due patrioti e studenti dell'Università di Bologna, Luigi Zamboni, natio del capoluogo emiliano, e Giambattista De Rolandis, originario di Castell'Alfero (Asti), che nell'autunno del 1794 unirono il bianco e il rosso delle rispettive città al verde, colore della speranza. Si erano prefissi di organizzare una rivoluzione per ridare al Comune di Bologna l'antica indipendenza perduta con la sudditanza agli Stati della Chiesa. La sommossa, nella notte del 13 dicembre, fallì e i due studenti furono scoperti e catturati dalla polizia pontificia, insieme ad altri cittadini. Avviato il processo, il 19 agosto 1795, Luigi Zamboni fu trovato morto nella cella denominata "Inferno" dove era rinchiuso insieme con due criminali, che lo avrebbero strangolato per ordine espresso della polizia. L'altro studente Giovanni Battista De Rolandis fu condannato a morte ed impiccato il 23 aprile 1796. Napoleone la adottò il 15 maggio 1796 per le Legioni lombarde e italiane. Nell'ottobre dello stesso anno il tricolore assunse il titolo di bandiera rivoluzionaria italiana ed il suo verde, proclamato colore nazionale, divenne per i patrioti simbolo di speranza per un migliore avvenire: con questo valore fu adottato dalla Repubblica Cispadana il 7 gennaio 1797, qualche mese dopo da Bergamo e Brescia e poi dalla Repubblica Cisalpina. In quell’epoca le sue bande erano disposte talvolta verticalmente all'asta con quella verde in primo luogo, talvolta orizzontalmente con la verde in alto; a cominciare dal 1° maggio 1798 soltanto verticalmente, con asta tricolorata a spirale, terminante con punta bianca. Nella metà del 1802 la forma diviene quadrata, con tre quadrati degli stessi colori racchiusi l'uno nell'altro; questo cambiamento fu voluto dal Melzi (vice presidente della Repubblica Italiana) per cancellare ogni vincolo rivoluzionario legato alla bandiera. Abolito alla caduta del Regno Italico, il tricolore fu ripreso, nella sua variante rettangolare, dai patrioti dei moti del 1821 e del 1831. Mazzini la scelse come bandiera per la sua Giovine Italia, e fu subito adottata anche dalle truppe garibaldine. Durante i moti del '48/'49, sventola in tutti gli Stati italiani nei quali sorsero governi costituzionali: Regno di Napoli, Sicilia, Stato Pontificio, Granducato di Toscana, Ducato di Parma, Ducato di Modena, Milano, Venezia e Piemonte. In quest'ultimo caso alla bandiera fu aggiunto nel centro lo stemma sabaudo (uno scudo con croce bianca su sfondo rosso, orlato d’azzurro). La variante sabauda divenne bandiera del Regno d'Italia fino al referendum istituzionale del 2 giugno 1946, quando l'Italia divenne Repubblica e lo scudo dei Savoia fu tolto.

L'inno di Mameli
Fratelli d'Italia…
Dobbiamo alla città di Genova Il Canto degli Italiani, meglio conosciuto come Inno di Mameli. Scritto nell'autunno del 1847 dall'allora ventenne studente e patriota Goffredo Mameli, musicato poco dopo a Torino da un altro genovese, Michele Novaro, il Canto degli Italiani nacque in quel clima di fervore patriottico che già preludeva alla guerra contro l'Austria. L'immediatezza dei versi e l'impeto della melodia ne fecero il più amato canto dell'unificazione, non solo durante la stagione risorgimentale, ma anche nei decenni successivi. Non a caso Giuseppe Verdi, nel suo Inno delle Nazioni del 1862, affidò proprio al Canto degli Italiani - e non alla Marcia Reale - il compito di simboleggiare la nostra Patria, ponendolo accanto a God Save the Queen e alla Marsigliese. Fu quasi naturale, dunque, che il 12 ottobre 1946 l'Inno di Mameli divenisse l'inno nazionale della Repubblica Italiana.

Il poeta
Goffredo Mameli dei Mannelli nasce a Genova il 5 settembre 1827. Studente e poeta precocissimo, di sentimenti liberali e repubblicani, aderisce al mazzinianesimo nel 1847, l'anno in cui partecipa attivamente alle grandi manifestazioni genovesi per le riforme e compone Il Canto degli Italiani. D'ora in poi, la vita del poeta-soldato sarà dedicata interamente alla causa italiana: nel marzo del 1848, a capo di 300 volontari, raggiunge Milano insorta, per poi combattere gli Austriaci sul Mincio col grado di capitano dei bersaglieri. Dopo l'armistizio Salasco, torna a Genova, collabora con Garibaldi e, in novembre, raggiunge Roma dove, il 9 febbraio 1849, è proclamata la Repubblica. Nonostante la febbre, è sempre in prima linea nella difesa della città assediata dai Francesi: il 3 giugno è ferito alla gamba sinistra, che dovrà essere amputata per la sopraggiunta cancrena. Muore d'infezione il 6 luglio, alle sette e mezza del mattino, a soli ventidue anni.
Le sue spoglie riposano nel Mausoleo Ossario del Gianicolo.

Il musicista
Michele Novaro nacque il 23 ottobre 1818 a Genova, dove studiò composizione e canto. Nel 1847 è a Torino, con un contratto di secondo tenore e maestro dei cori dei Teatri Regio e Carignano. Convinto liberale, offrì alla causa dell'indipendenza il suo talento compositivo, musicando decine di canti patriottici e organizzando spettacoli per la raccolta di fondi destinati alle imprese garibaldine. D’indole modesta, non trasse alcun vantaggio dal suo inno più famoso, neanche dopo l'Unità. Tornato a Genova, fra il 1864 e il 1865 fondò una Scuola Corale Popolare, alla quale avrebbe dedicato tutto il suo impegno. Morì povero, il 21 ottobre 1885, e lo scorcio della sua vita fu segnato da difficoltà finanziarie e da problemi di salute. Per iniziativa dei suoi ex allievi, gli fu eretto un monumento funebre nel cimitero di Staglieno, dove oggi riposa vicino alla tomba di Mazzini.

Come nacque l'inno
La testimonianza più nota è quella resa, seppure molti anni più tardi, da Carlo Alberto Barrili, patriota e poeta, amico e biografo di Mameli. Siamo a Torino: "Colà, in una sera di mezzo settembre, in casa di Lorenzo Valerio, fior di patriota e scrittore di buon nome, si faceva musica e politica insieme. Infatti, per mandarle d'accordo, si leggevano al pianoforte parecchi inni sbocciati appunto in quell'anno per ogni terra d'Italia, da quello del Meucci, di Roma, musicato dal Magazzari - Del nuovo anno già l'alba primiera - al recentissimo del piemontese Bertoldi - Coll'azzurra coccarda sul petto - musicata dal Rossi. In quel mezzo entra nel salotto un nuovo ospite, Ulisse Borzino, l'egregio pittore che tutti i miei genovesi rammentano. Giungeva egli appunto da Genova; e voltosi a Novaro, con un foglietto che aveva cavato di tasca in quel punto: - To' gli disse, te lo manda Goffredo. - Novaro apre il foglietto, legge, e si commuove. Gli chiedono tutti cosa fosse, gli fan ressa d'attorno. - Una cosa stupenda! - esclama il maestro; e legge ad alta voce, e solleva ad entusiasmo tutto il suo uditorio. - Io sentii - mi diceva il Maestro nell'aprile del '75, avendogli io chiesto notizie dell'Inno, per una commemorazione che dovevo tenere del Mameli - io sentii dentro di me qualche cosa di straordinario, che non saprei definire adesso, con tutti i ventisette anni trascorsi. So che piansi, che ero agitato, e non potevo star fermo. Mi posi al cembalo, con i versi di Goffredo sul leggio, e strimpellavo, assassinavo con le dita convulse quel povero strumento, sempre con gli occhi all'inno, mettendo giù frasi melodiche, una sull'altra, ma lungi mille miglia dall'idea che potevano adattarsi a quelle parole. Mi alzai scontento di me; mi trattenei ancora un po' in casa Valerio, ma sempre con quei versi davanti agli occhi della mente. Vidi che non c'era rimedio, presi congedo e corsi a casa. Là, senza neppure levarmi il cappello, mi buttai al pianoforte. Mi tornò alla memoria il motivo strimpellato in casa Valerio, lo scrissi su di un foglio di carta, il primo che mi venne alle mani: nella mia agitazione rovesciai la lucerna sul cembalo e, per conseguenza, anche sul povero foglio; fu questo l'originale dell'inno Fratelli d'Italia”.

L’inno
La cultura di Mameli è classica e forte è il richiamo alla romanità. Appartiene a Scipione l'Africano, il vincitore di Zama, l'elmo che indossa l'Italia pronta alla guerra.
Una bandiera e una speranza (speme) comuni per l'Italia, nel 1848 ancora divisa in sette Stati.
In questa strofa, Mameli ripercorre sette secoli di lotta contro il dominio straniero. Anzitutto, la battaglia di Legnano del 1176, in cui la Lega Lombarda sconfisse Barbarossa. Poi, l'estrema difesa della Repubblica di Firenze, assediata dall'esercito imperiale di Carlo V nel 1530, di cui fu simbolo il capitano Francesco Ferrucci. Il 2 agosto, dieci giorni prima della capitolazione della città, egli sconfisse le truppe nemiche a Gavinana; ferito e catturato, è finito da Fabrizio Maramaldo, un italiano al soldo straniero, al quale rivolge le parole d'infamia divenute celebri
"Tu uccidi un uomo morto"
Ogni squilla significa "ogni campana". La sera del 30 marzo 1282, le campane chiamarono il popolo di Palermo all'insurrezione contro i Francesi di Carlo d'Angiò, i Vespri Siciliani.Fratelli d'Italia

Fratelli d'Italia (1847)

di Goffredo Mameli
musica di Michele Novaro

Inno nazionale della Repubblica italiana dal 1947

L'Italia s'è desta,
Dell'elmo di Scipio
S'è cinta la testa.
Dov'è la Vittoria ?
Le porga la chioma,
Ché schiava di Roma
Iddio la creò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.

Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi,
Perché non siam popolo,
Perché siam divisi.
Raccolgaci un'unica
Bandiera una speme:
Di fonderci insieme
Già l'ora suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.

Uniamoci, amiamoci,
l'Unione, e l'amore
Rivelano ai Popoli
Le vie del Signore;
Giuriamo far libero
Il suolo natìo:
Uniti per Dio
Chi vincer ci può?
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.

Dall'Alpi a Sicilia
Dovunque è Legnano ,
Ogn'uom di Ferruccio
Ha il core, ha la mano,
I bimbi d'Italia
Si chiaman Balilla,
Il suon d'ogni squilla
I Vespri suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.

Son giunchi che piegano
Le spade vendute:
Già l'Aquila d'Austria
Le penne ha perdute.
Il sangue d'Italia,
Il sangue Polacco,
Bevé, col cosacco,
Ma il cor le bruciò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò