lunedì 18 novembre 2013

I politici sprecano e...

I politici sprecano e i cittadini pagano i loro sprechi. 

La classe politica italiana sperpera i soldi pubblici, e i cittadini pagano questi loro sprechi, attraverso l’aumento del prelievo fiscale e la riduzione dei servizi essenziali.

 Oggi l’Italia sta attraversando un periodo di forte crisi economica, iniziata nel 2008 negli Stati Uniti e diffusasi in tutto il mondo. In Italia i “governi della crisi” non sono riusciti a fronteggiarla, anzi hanno solo peggiorato la situazione. L’ultimo di essi, il cosiddetto governo tecnico di Monti, è riuscito solo ad aggravare le circostanze, distruggendo l’economia di un Paese; argomento che sarà approfondito in un altro articolo. Questa è solo una premessa, nella quale evidenziare i continui sperperi e scandali dei politici, nonostante le condizioni in cui versa l’Italia.
 I nostri cari politici continuano a rubare e a vivere sulla spalle dei cittadini, basta pensare agli scandali sul finanziamento pubblico, ‘questi soldi venivano utilizzati da alcuni partiti per finanziare le spese personali dei loro membri’, è stata chiesta l’abolizione o la riduzione dei finanziamenti, ma la maggior parte dei politici ha detto no (vergogna).
 Gli sprechi dei governi regionali, come accaduto in questi giorni nel Lazio, ma in passato anche in Campania (con il governo Bassolino) e in altre regioni.
Gli stipendi e le indennità che percepiscono gli onorevoli, i senatori, i presidenti di camera e senato, il presidente della Repubblica e i vari dirigenti delle amministrazioni pubbliche, sono uno schiaffo nei confronti dei cittadini, che in questo momento sono costretti a “tirare la cinghia” a causa di tutti gli aumenti portati dalle nuove regole per salvare l’Italia (più che le regole per salvare l’Italia sono le regole per salvare se stessi).
I viaggi dei politici, compreso il presidente della Repubblica, con delegazioni esagerate al seguito, le auto blu, le spese pazze dei palazzi governativi, le pensioni d’oro, e tantissimi altri spechi che è inutile elencare.
Gli sprechi dei governi provinciali, che potrebbero essere eliminati abolendo le provincie.
 Gli spechi dei comuni, che potrebbero essere eliminati accorpando i comuni con meno di 5.000 abitanti.
 Intanto mentre loro vivono nel lusso e spendono, anzi rubano i nostri soldi, i cittadini italiani devono fare i conti con la disoccupazione, la pressione fiscale, e devono cercare di arrivare alla fine del mese dignitosamente.
 I provvedimenti varati dal governo Monti non hanno risolto il problema della crisi in Italia, anzi. Hanno creato una recessione economica che durerà molti anni; sono serviti solo a riparare gli sprechi del governo e a far contenti i vertici europei (anche questo sarà oggetto di un altro articolo).
 Io credo sia arrivato il momento che i politici e coloro che dirigono lo scenario dell’economia italiana, la smettano di vivere come parassiti sulle spalle dei cittadini e si diano da fare per far riprendere l’economia dell’Italia, se poi non sono capaci, allora, è meglio che se ne vadano, e se non vogliono andar via dobbiamo essere noi cittadini a mandarli a casa; in che modo? Non votandoli o votando persone che non fanno parte della casta consolidata di vecchi volponi (sempre se queste persone esistono). Questo può sembrare un comportamento come dicono loro d’irresponsabilità, io invece dico che andare a votare per un cittadino è un diritto e un dovere, ma governare in modo giusto è un dovere politico, e i veri irresponsabili sono i governanti.
 Se fossi io al loro posto adotterei alcuni provvedimenti, che elencherò qui in sintesi, e che poi saranno in altri articoli meglio approfonditi:
1) diminuire il numero dei parlamentari, in modo drastico;
2) ridurre lo stipendio dei parlamentari, e dei consiglieri regionali, compresi i benefici di cui godono;
3) eliminare i senatori a vita;
4) abolire l’attuale legge sul finanziamento pubblico ai partiti (stabilire solo un minimo rimborso per le spese elettorali sostenute e documentate).  I partiti che avranno ottenuto il 10% dei consensi alla camera e al senato potranno ottenere un rimborso per le spese elettorali sostenute (documentandole) non superiore al tetto massimo dei 5 milioni di euro. Per quanto riguarda le elezioni regionali, i partiti che avranno ottenuto sempre il 10% dei consensi alla regione potranno richiedere un rimborso per le spese elettorali sostenute (documentandole) non superiore al tetto massimo dei 2 milioni di euro. Tutti gli altri finanziamenti dovranno pervenire da donazioni e raccolte di fondi, destinazione del 5 per mille, quote dei soci, ecc. Tutti i bilanci dei partiti dovranno essere certificati da società esterne. In questo modo il finanziamento a pioggia verrà abolito, ci saranno solo rimborsi per la campagna elettorale, che verranno dati ai pochi partiti che raggiungono il 10% dei consensi, eliminando così i piccoli partiti che nascono solo per rubare il finanziamento. Infine con il tetto massimo non superiore a 5 milioni e a 2 milioni la spesa sarà minima;
5) eliminazione delle provincie e trasformazione degli istituti e uffici provinciali in distaccamenti regionali, in questo modo si eliminano tutte le spese e gli spechi dei governi provinciali;
6) eliminazione di tutte le consulenze superflue;
7) riduzione dello stipendio del Presidente della Repubblica e riduzione delle spese sostenute dal Quirinale;
8) riduzione drastica delle delegazioni che seguono i governanti nei viaggi di stato, è una vergogna vedere viaggi con delegazioni di 300, 400 persone, bisogna stabilire un tetto massimo, e impedire che si portano dietro i parenti a spese dello Stato.
 Questi i provvedimenti più urgenti. Altri verranno trattati in apposita sede.
 Concludo con un’affermazione “fare il politico non è un posto di lavoro, come oggi molti lo hanno interpretato, e che perciò conservano con tanta ingordigia; fare il politico è una vocazione , è come fare il volontario di una associazione non profit. Chi fa il politico non lo deve fare per i soldi e per la poltrona, ma lo deve fare per aiutare i cittadini e far star bene lo Stato, e ha il dovere di governare in modo giusto. Oggi in Italia questo non esiste, i politici stanno lì solo per lo stipendio e la poltrona, e vivono come parassiti.”

 Marco Tangredi

per salvare l'Italia

Secondo voi per salvare l'Italia dalla crisi cosa bisogna fare?

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Le mani di Bruxelles sull'Italia

Le mani di Bruxelles sull'Italia Così ci vogliono commissariare

 
Milano - A voler essere ottimisti, il brutto voto assegnato dalla Commissione europea alla legge di Stabilità potrebbe essere classificato come l'ennesima conferma dell'umore ondivago di Bruxelles nei confronti dell'Italia.
Un pendolo in continua oscillazione tra il bastone e la carota, una dinamo a corrente alternata capace di dispensare carezze «per gli sforzi fatti» ma anche di rifilare ceffoni causa «la lentezza delle riforme». Ma il «semaforo arancione», nella definizione eufemistica del commissario Olli Rehn, rischia di essere il segnale premonitore di un prossimo commissariamento dell'Italia. Insomma, saremmo già alle prove tecniche di troika, alla messa sotto tutela di Ue, Bce e Fmi con la conseguente cessione della sovranità nazionale.
La bocciatura alla legge di Stabilità è del resto un fatto grave. Lo è perché la manovra porta in calce soprattutto la firma di Maurizio Saccomanni, una vita spesa in Bankitalia a contatto con Mario Draghi. La stretta vicinanza e la condivisione di idee tra il ministro dell'Economia e il presidente della Bce avrebbero dovuto proteggere, nelle intenzioni, l'Italia dagli strali comunitari. Un'ulteriore blindatura sembrava garantita dall'aver strappato al dipartimento Affari di bilancio del Fondo monetario internazionale Carlo Cottarelli (anch'egli, peraltro, ex Bankitalia) per affidargli la supervisione interna della spending review. Ovvero, l'architrave di quella politica di austerity sconfessata, seppur con colpevole ritardo, dallo stesso Fmi. Nel tragitto da Washington a Roma, Cottarelli ha quindi perso il piumaggio da colomba ed è arrivato nella capitale volando con le ali da falco. Questo double team rigorista non è però bastato per strappare il «sì» della Commissione Ue.
All'Italia viene imputato un insufficiente calo del debito. Vero. Il debito, anziché diminuire, è cresciuto fino ad arrivare al 133% del Pil, e promette di salire l'anno prossimo fino a raggiungere quota 134%. La sostanziale stabilità dello spread sembra aver garantito finora solo una minor spesa per interessi. Ma per il resto, le condizioni in cui si trova un Paese che ha bruciato nove punti di Pil e un quarto della produzione industriale dal 2007 a oggi, con una scia di recessione lunga nove trimestri e che da gennaio a fine settembre ha visto fallire 10mila imprese, non permettono neppure un contenimento degli oltre duemila miliardi di debito pubblico. La contrazione dell'economia, aggravata dalle politiche restrittive (un fenomeno ammesso perfino da Mario Monti), porta infatti a una continua erosione del gettito fiscale nonostante i sacrifici imposti a famiglie e imprese. Chi non lavora, ovvero il 12,5% degli italiani, ha forzatamente tagliato i consumi. Ciò significa minori entrate erariali e minori profitti per le imprese, costrette quindi a mandare a casa altri lavoratori. Una spirale perversa.

Anche se di troppo rigore si può morire, è difficile ipotizzare un default dell'Italia. In fondo, siamo pur sempre too big to fail. Se però le agenzie di rating dovessero classificare il nostro debito come junk, cioè spazzatura, i grandi investitori istituzionali sarebbero costretti a sbarazzarsi di Bot e Btp. Con conseguenze così disastrose da rendere inevitabile l'sos alla Bce attraverso l'attivazione dello scudo Omt. Di fatto, si spalancherebbero le porte all'arrivo della troika. Viste le esperienze precedenti (Irlanda, Grecia e Portogallo), la medicina prescritta sarebbe molto amara: robuste sforbiciate ai dipendenti pubblici, taglio ai salari minimi e picconate al welfare. Misure che condannerebbero il Paese ad altri anni di recessione. L'alternativa? Una: picchiare i pugni sul tavolo per rinegoziare con l'Europa le regole di un gioco mortale.

Pagine memorabili

PAGINE MEMORABILI: DAL LIBRO CUORE - L'AMOR DI PATRIA

 

L'amor di patria

Poiché il racconto del Tamburino t'ha scosso il cuore ti doveva esser facile, questa mattina, far bene il componimento d'esame: -
 Perché amate l'Italia.
 Perché amo l'Italia?
Non ti si son presentate subito cento risposte?
Io amo l'Italia perché mia madre è italiana, perché il sangue che mi scorre nelle vene è italiano perché è italiana la terra dove son sepolti i morti che mia madre piange e che mio padre venera, perché la città dove son nato, la lingua che parlo, i libri che m'educano, perché mio fratello, mia sorella, i miei compagni, e il grande popolo in mezzo a cui vivo, e la bella natura che mi circonda, e tutto ciò che vedo, che amo, che studio, che ammiro, è italiano.
Oh tu non puoi ancora sentirlo intero quest'affetto.
Lo sentirai quando sarai un uomo, quando ritornando da un viaggio lungo, dopo una lunga assenza, e affacciandoti una mattina al parapetto del bastimento, vedrai all'orizzonte le grandi montagne azzurre del tuo paese; lo sentirai allora nell'onda impetuosa di tenerezza che t'empirà gli occhi di lagrime e ti strapperà un grido dal cuore.
 Lo sentirai in qualche grande città lontana, nell'impulso dell'anima che ti spingerà fra la folla sconosciuta verso un operaio sconosciuto dal quale avrai inteso passandogli accanto, una parola della tua lingua.
Lo sentirai nello sdegno doloroso e superbo che ti getterà il sangue alla fronte, quando udrai ingiuriare il tuo paese dalla bocca d'uno straniero.
Lo sentirai più violento e più altero il giorno in cui la minaccia d'un popolo nemico solleverà una tempesta di fuoco sulla tua patria, e vedrai fremere armi d'ogni parte, i giovani accorrere a legioni, i padri baciare i figli, dicendo:
- Coraggio! -
 e le madri dire addio ai giovinetti, gridando:
- Vincete! -
Lo sentirai come una gioia divina se avrai la fortuna di veder rientrare nella tua città i reggimenti diradati, stanchi, cenciosi, terribili, con lo splendore della vittoria negli occhi e le bandiere lacerate dalle palle, seguiti da un convoglio sterminato di valorosi che leveranno in alto le teste bendate e i moncherini, in mezzo a una folla pazza che li coprirà di fiori, di benedizioni e di baci.
Tu comprenderai allora l'amor di patria, sentirai la patria allora, Enrico.
Ella è una così grande e sacra cosa, che se un giorno io vedessi te tornar salvo da una battaglia combattuta per essa, salvo te, che sei la carne e l'anima mia, e sapessi che hai conservato la vita perché ti sei nascosto alla morte, io tuo padre, che t'accolgo con un grido di gioia quando torni dalla scuola, io t'accoglierei con un singhiozzo d'angoscia, e non potrei amarti mai più, e morirei con quel pugnale nel cuore.
TUO PADRE

Italia senza lavoro

Italia senza lavoro, i giovani italiani vanno all’estero

 

Sempre più giovani italiani all’estero. In Italia si fa fatica a trovare lavoro, anche quando sei preparato, hai il “pezzo di carta” in mano e tanta voglia di fare. Inutile, lo Stivale è un Paese vecchio e per vecchi, non c’è storia. Così i nostri ragazzi se ne vanno, varcano i confini nazionali per cercare fortuna altrove. E a volte questa fortuna può anche essere soltanto un lavoro dignitoso. Già, perché le nuove generazioni non cercano mica la luna: vogliono solo essere messi in condizione di dimostrare a se stessi prima di tutto quanto valgono. E di guadagnare uno stipendio che permetta loro di vivere, e non di tirare a campare. Un ritorno all’emigrazione di un tempo: solo che anziché avere la valigia di cartone i giovani d’oggi partono con l’iPad sotto il braccio.
Non è vero che a partire sono soltanto “i cervelli”. Non è così. In tanti decidono di lasciare il nostro Paese per fare i baristi, i camerieri, o più in generale lavori manuali. Quante volte su ItaliaChiamaItalia abbiamo parlato dei giovani che partono? E quante volte abbiamo auspicato che le nuove generazioni possano essere messe in grado di non abbandonare la propria Patria, ma di aiutarla con il loro lavoro e impegno a crescere? Ma se il lavoro da noi non c’è, i giovani sono costretti per forza di cose a cercarlo altrove.
LE STORIE Del fenomeno che riguarda i giovani italiani che decidono di recarsi all’estero in cerca di lavoro ne ha parlato nei giorni scorsi Affari Italiani, che ha raccontato diverse storie reali, come quella di Cristiano, per esempio, che ha lasciato Roma per andare in Germania: “Berlino sicuramente non è il paradiso e l'Italia mi manca, soprattutto la famiglia ma, francamente, ciò che mi manca viene compensato da ciò che ho trovato qui”. 37 anni, una moglie e un figlio: ha deciso di lasciare Roma circa un anno fa per volare a Berlino. “A Roma noi stavamo a Monteverde, posso dire che si campava! Vivere è una parola grossa. In qualche modo, a volte con un piccolo aiuto dei genitori, si riusciva ad andare avanti, ma tante cose spesso sfumavano a causa di cattivi pagatori e di lavori troppo impegnativi e pagati comunque troppo poco”. Cristiano in Germania fa sempre il suo lavoro, nell’ambito della pubblicità e del marketing. E’ un tecnico audio visuale. Ma in Italia faceva fatica: ora a Berlino lavora per una delle compagnie più grandi nel mondo per gli effetti visivi, dopo aver fatto il freelance per 2 mesi è stato assunto perché temevano che se ne andasse in altre compagnie. E di tornare in Italia non se ne parla proprio.
C’è poi Francesco S., architetto romano di 29 anni, a partita Iva in uno studio di Rignano Flaminio, guadagna in un mese 600 euro circa a lordo e anche cercando altro, il meglio che ha trovato è stato di 800 mensili, senza contratto, s’intende, molto poco, troppo, anche solo per campare e adesso sta pianificando il suo trasferimento in Svizzera: “Ho deciso di partire perché ormai in Italia per noi giovani non c'è più prospettiva per il futuro e la possibilità di un lavoro che ti permetta di vivere in modo dignitoso. Partirò per la Svizzera tra settembre e ottobre, non ho conoscenze dirette però già sto mandando dei curriculum vitae per trovare un lavoro così da non perdere troppo tempo quando sarò lì”.
Anche Federico, geometra di 25 anni, dopo 2 anni di tirocinio e tante promesse in uno studio professionale sulla Cristoforo Colombo, inizia a vedere i primi soldi, 700 euro al mese ma di contratto non se ne parla. Lui continua a lavorare ma quando vede che anche il mensile inizia ad arrivare in ritardo, prima un mese, poi due e anche tre, decide di dire basta e abbandona lo studio. Raccolte informazioni all’Associazione dei geometri per lavorare all’estero, ora è in procinto di partire per l’Australia, armato solo di bagagli ma con tanta speranza e voglia di sognare ancora: “Purtroppo l’Italia è caduta talmente tanto in crisi che ti costringe a dover guardare fuori. Molti non partono per voglia di farlo ma per necessità. Ora io sono uno di quelli”.
ALCUNI DATI L’Aire, l’Anagrafe Italiani Residenti all’Estero, registra il 2012, l’anno nero della crisi, come anche l’anno del boom degli espatri, con 4.341.156 italiani residenti oltre confine, un aumento del 30% rispetto al 2011. Ad abbandonare l’Italia in crisi sono più gli uomini che le donne, il 56% contro il 44%, con un’età media di 33 anni e i laureati sono più del 27%. Tra le mete degli italiani che emigrano, in testa c’è la Germania, ma anche la Svizzera, la Gran Bretagna, l’Argentina, gli USA e l’Australia.
I NUOVI MESTIERI La crisi ha anche spinto i nostri giovani ad armarsi di fantasia e di grande forza di volontà, e quindi ad inventarsi un lavoro. Grazie a internet, in molti hanno trovato una strada: blogger, imprese che sviluppano siti web. Ma alcuni lavori sono davvero strani: c’è il declutter, per esempio, ovvero l’addetto ad organizzare gli spazi, casa o ufficio, in modo efficiente, eliminando tutto quel superfluo che comporta perdite di tempo e denaro. Oppure l’home stager, che aiuta il proprietario a valorizzare una casa per favorirne la vendita, in pratica una forma raffinata di marketing immobiliare. Fino al cake decorator, una via di mezzo tra un pasticciere e un food stylist, perché le sue torte devono essere un piacere per gli occhi e per il palato. Insomma, se l’intenzione è di non abbandonare la nave che affonda, allora l’unica alternativa è darsi da fare.

LAVORO, LAVORO, LAVORO E’ davvero il lavoro l’urgenza per i giovani italiani. Studiano, accumulano esperienza attraverso stage formativi, si applicano, fanno sacrifici, ma poi non riescono a trovare la loro strada. Non perché non ne siano capaci, non perché non siano pronti ad affrontare le sfide, ma perché proprio non c’è spazio per loro in questo Stivale ormai massacrato da chi ha gestito la cosa pubblica e l’economia italiana nei decenni passati. I padri si sono mangiati il futuro dei figli, questa è la verità. E ora tocca ai giovani cercare di inventarsi un futuro, che in Italia sembra davvero buio. Partire è un po’ come morire, si dice: ma se l’alternativa è “tirare a campare” o lavorare per quattro soldi, allora meglio fare la valigia e partire. Alla ricerca della felicità, la propria. (RF)

 

Il popolo sovrano

Il popolo sovrano ha abdicato

 
Noi popolo sovrano della Repubbli­ca italiana, abbiamo deciso di abdi­care, lasciando la sovranità a ignoti.
Con decisione maggioritaria, e dun­que democratica, abbiamo rinunciato al nostro diritto, sancito dalla Costituzio­ne, di eleggere attraverso l’esercizio del voto un Parlamento e quindi un gover­no.
Abbiamo scelto come prova generale e laboratorio nazionale della nostra abdi­cazione la Sicilia, là dove comincia l’Ita­lia e là dove partì con lo sbarco america­no la liberazione del Paese.

Per la prima volta nella storia della Re­pubblica la maggioranza assoluta di noi elettori non è andata a votare, il residuo voto ha premiato come primo partito un movimento di protesta radicale e i restan­ti spiccioli si disperdono in liste tra loro incomponibili. In questo modo abbia­mo ricusato il diritto di voto e dichiarato estinta e rigettata la democrazia.
Il voto è stato un puro spettacolo fine a se stesso, una giostra che prescinde com­pletamente da chi dovrà poi governare, non avendo i numeri. Le motivazioni del­la nostra abdicazione non si possono sbrigare con lo stato di salute di noi sovra­ni. In effetti la nostra salute psicofisica, soprattutto mentale, versa in uno stato depressivo preoccupante. Ma è la totale sfiducia nel voto, nei partiti politici e an­che nei loro surrogati, come i tecnici, a in­durci a questo atto.
Non abdichiamo in favore di nessuno, non riconosciamo eredi, tutori o curato­ri. Anarchia, scioglimento o dominazio­ne straniera, fate voi.

Lasciamo il Paese incustodito e restitu­iamo la democrazia come un ordigno al Dio Ignoto.

Marcello Veneziani

Gli italiani che hanno fatto grande l'America

Gli italiani che hanno fatto grande l'America

Dalla politica allo spettacolo, dalla scienza allo sport: una storia iniziata con la Dichiarazione d'Indipendenza

 

Un cognome italiano per New York. Bill De Blasio è primo cittadino. Italiani d'America. Sono decine e decine i nomi di artisti, politici, scienziati, inventori, letterati, sportivi, giuristi ma anche di criminali che hanno contribuito a fare la storia degli Stati Uniti. Questa è una piccola guida degli italoamericani che con le loro gesta hanno lasciato  (o lasciano) un'importante traccia. Fin dall'inizio, fin dalla nascita della nazione.
Philipp (nato Filippo) Mazzei a Poggio a Caiano, in Toscana, il 25 dicembre 1730 è l'uomo che ha portato un poco d'Italia nella Rivoluzione Americana. Figlio cadetto di una nobile famiglia toscana, illuminista, prima visse a Londra e poi approdò sull'altra sponda dell'Oceano per partecipare alla Guerra d'Indipendenza, svolgendo il ruolo di mediatore per gli acquisti delle armi che servivano ai coloni che si erano ribellati agli inglesi. Fu molto amico di Thomas Jefferson e di altri Padri della Patria come George Washington, John Adams e James Madison. Non è stato l'unico italo-americano ad avere avuto un importante ruolo politico nella storia americana.
I politici
Il più famoso è Fiorello La Guardia, sindaco di New York dal 1933 e per tre mandati consecutivi. Eletto alla guida della città negli anni della Grande Depressione, Little Flowers, come veniva chiamato giocando sul suo nome, La Guardia l'amministra con grande efficienza e onestà, combattendo il crimine e rilanciando l'economia della Grande Mela. A lui, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale e poco prima della sua morte, viene intitolato l'aeroporto della città. Di origine italiane è anche Rudolph Giuliani, sindaco di New York dal 1994 al 2001, l'uomo della Tolleranza Zero contro il crimine. Mario Cuomo è stato invece governatore dello stato per 11 anni, dal 1983 al 1994.
Dalla Grande Mela arrivava anche Geraldine Ferraro, la prima donna nella storia degli Usa ad essere candidata alla vice presidenza nel 1984 con Walter Mondale. I due furono battuti da Ronald Reagan. Democratica è anche Nancy Pelosi, prima donna Speaker della Camera dei Rappresentanti, attuale leader del partito di Barack Obama a Capitol Hill. Di origine italiane anche Janet Napolitano. segretario alla sicurezza del governo Usa, e Leon Panetta, ex Segretario alla Difesa e Numero Uno della Cia.
Anthony J. Celebrezze (nato Antonio Giuseppe Cilibrizzi) fu il primo italoamericano e fu anche il primo politico che non era nato sul suolo americano a diventare membro di un gabinetto Usa. Ex sindaco di Clevelend, venne chiamato da JFK a Washington per diventare ministro della salute e poi fu confermato da Lyndon Johnson dopo la morte del suo predecessore.
Inventori e scienziati
Il più importante è Antonio Meucci, riconosciuto dal Congresso americano come l'uomo che inventò il telefono. Tra gli scienziati, Robert Gallo, che contribuì a importanti scoperte per la lotta all'Aids, Franco Modigliani, naturalizzato cittadino statunitense e vincitore del Premio Nobel per l'Economia nel 1985, Emilio Segrè, scappato dall'Italia dopo le leggi razziali del fascismo e approdato negli Usa dove ha proseguito le sue ricerche nel campo della fisica tanto da meritare il Nobel nel 1959.
Uomini di legge, d'ordine e di malavita
Antonin Scalia è membro della Corte Suprema degli Usa ed è considerato il capofila dell'ala conservatrice. John Sirica, invece, è diventato famoso per aver presieduto le audizioni del Caso Watergate: Vincent Bugliosi, all'inizio degli anni'70 fu il giudice che condannò Charles Manson. Ma, ovviamente gli italoamericani hanno fatto la storia d'America anche per la presenza della mafia nel Nuovo Mondo. Chi combattè il crimine organizzato negli Usa all'inizio del'900 fu il super poliziotto Joe Petrosino, mentre Joseph D. Pistone fu l'agente coperto dell'Fbi che con il nome di Donnie Brasco si infiltrò nella famiglia mafiosa dei Bonanno di New York.
Alphonse Gabriel Capone, al secolo Scarface Al fu il simbolo del gansterismo negli Usa degli anni'30 dello scorso secolo. Joseph Ardizzone, Iron Man (uomo d'acciaio, come venne chiamato) fu il primo capo della mafia a Los Angeles. Frank Costello (Francesco Castiglia) fu uno degli uomini di Cosa Nostra più conosciuti dal pubblico americano.
Uomini d'affari

Tra i più conosciuti, Lee Iacocca, l'uomo che rilanciò la Chrysler negli anni'80, quando ne divenne il numero uno. Samuel Palmisano, invece, è stato a capo del colosso IBM per una decina di anni, fino al 2011. Italoamericani anche i Jacuzzi, inventori della famosissima vasca da idromassaggio. I sette fratelli sbarcati negli Usa, in California, da Pordenone nel 1900, diedero vita a una industria che,con il corso dei decenni si è sviluppata ed è diventata una multinazionale. Nel 1968, Candido Jacuzzi, uno dei fratelli, portò sul mercato il primo modello di quella vasca che sarebbe stata apprezzata in tutto il mondo.
Spettacolo
Qui la lista è lunghissima. Dal cinema al teatro alla musica, sono moltissimi gli artisti di orgine italiana.
Cinema
Da Frank Capra - il regista dei più popolari film degli anni'30 e '40 - a Quentin Tarantino, il regista che ha "rivoluzionato" il modo di fare film a Hollywood; da Martin Scorzese a Francis Ford Coppola, da Brian De Palma a Michael Cimino sono numerosi gli italiamericani che hanno girato pellicole passate alla storia del cinema americano. Altrettanto lunga è la lista degli attori, a partire da quel Rudy Valentino, primo sex symbol, che contribuì a far nascere l'industria degli studios. Al Pacino (Alfredo James Pacino) e Robert De Niro (figlio del pittore Robert De Niro Senior); Leonardo Di Caprio (sangue italiano di quarta generazione) e Nicolas Cage (in realtà, Coppola, il cognome del padre); Ernest Borgnine (il cui vero cognome era Borgnino, piemontese) e Danny Devito; John Travolta e Lou Ferrigno, il bodybuilder che interpretò la parte di Hulk nel primo film tratto dalla serie di fumetti della Marvel, sono solo una parte della lunga schiera i attori con origini italiane.
Musica
The Voice è italiana: Frank Sinatra. Ma non è (stata) la sola icona dello spettacolo americano Made in Italy. Un lungo filo rosso che attraversa le generazioni di artisti che si sono affermati negi States. Da Dino Paul Crocetti (al secolo Dean Martin, una delle figure più importanti negli anni'50) a Liza Minelli; da Tony Bennet (nato a New York nel 1926 con il cognome Benedetto) fino ad arrivare al genio musicale di Frank Zappa, al mezzo sangue italiano di Bruce Springsteen, alle radici siciliane di Jon Bon Jovi (John Francis Bongiovi). Forse non è quindi un caso che le due cantante pop che hanno dominato lo star system negli ultimi 20 anni del secolo scorso e nella prima decade di questo, Madonna e Lady Gaga siano entrambe di origi e di cognomi italiani: Madonna Louise Veronica Ciccone ha passato il testimone a Stefani Joanne Angelina Germanotta.
Sport
Ed Abbaticchio fu il primo italoamericano a usare il suo vero cognome e non uno pseudonimo nel baseball. Era il 1897 e lui giocava per i Phillies di Filadelfia. Ma il più grande fu chi arrivò dopo, Joe DiMaggio. Joltin Joe ("Joe che fa sobbalzare", come venne chiamato per la forza con cui colpiva la palla) fu una vera e propria leggenda. Non solo per i titoli sportivi vinta con gli Yankees di New York, ma anche per la sua vita privata molto intensa e il suo matrimonio con Marylin Monroe. Nel pugilato, Jake LaMotta, Rocky Marciano e Primo Carnera sono tutti nomi che accompagno la storia di questa disciplina sportiva. Aldo Donelli, giocatore di football americano e di calcio, fu il primo ad allenare contemporaneamente una squadra della National Football League e una squadra del campionato dei college. Era il 1941.
Arte
Scrittori come Don DeLillo, figlio di immigrati molisani a New York subito dopo la grande guerra, o Mario Puzo, l'autore del "Padrino"; novellisti come John Fante o poeti come Gregory Corso, uno dei cantori della Beat Generation. Architetti come Pietro Belluschi, ricordato, tra l'altro, per il suo progetto sul grattacielo della PanAm a New York, disegnatori di fumetti come Joseph Barbera, cofondatore insieme a William Hanna del famoso duo Hanna-Barbera, autore di personaggi come i Flinstones e Scooby Doo, sono sono alcuni degli esempi dell'arte italiana a stelle e strisce.

Michele Zurlemi

 

Sogno americano

Sogno americano

 Per sogno americano (American Dream) ci si riferisce alla speranza, condivisa sia dagli estimatori degli Stati Uniti d'America sia da parte degli abitanti, che attraverso il duro lavoro, il coraggio, la determinazione sia possibile raggiungere un migliore tenore di vita e la prosperità economica. Questi valori erano condivisi da molti dei primi coloni europei, e sono stati poi trasmessi alle generazioni seguenti. Cosa sia diventato il Sogno Americano, è una questione continuamente discussa; alcuni ritengono che abbia portato ad enfatizzare esclusivamente il benessere materiale come misura del successo e/o della felicità.

Profilo storico

L'origine del Sogno Americano proviene dall'allontanamento dai modelli del Vecchio Mondo per governo ed economia. Questo permise libertà mai sperimentata prima, specialmente la possibilità di una significativa mobilità sociale verso l'alto. In aggiunta, dalla Guerra di indipendenza americana fino all'ultima metà del diciannovesimo secolo, molte delle risorse dell'America erano libere e generarono promesse di proprietà terriere e investimenti fortunati in terre o industrie. Lo sviluppo della Rivoluzione Industriale combinato con le grandi risorse naturali dell'enorme continente non ancora completamente colonizzato creò la possibilità di migliorare la propria condizione sociale.
Molti dei primi imprenditori Americani si diressero a ovest, verso le Montagne Rocciose, dove potevano comprare a bassissimo prezzo molti acri di terreno, nella speranza di trovarvi dei giacimenti d'oro. Il Sogno Americano fu un fattore primario non solo per la "Corsa all'Oro" di metà ottocento, ma anche nelle successive ondate di immigrazione che caratterizzarono quel secolo e il successivo.
In Europa, le crisi come la grande carestia irlandese, l'esodo delle Highlands in Scozia e le conseguenze del regime Napoleonico spinsero molti dei più poveri europei ad andare in America, per poter rimediare al loro basso tenore di vita e godere delle ampie libertà economiche e costituzionali offerte dall'America.
A metà del diciannovesimo secolo arrivò negli Stati Uniti un numero considerevole di emigranti dalla Cina e dal Giappone, tutti alla ricerca del Sogno Americano. Questo fenomeno portò alla formazione di molti quartieri Cinesi (le cosiddette Chinatown), nelle maggiori città, come San Francisco, e New York City. Molti di questi emigranti dell'estremo oriente lavorarono come operai alla realizzazione della Prima Ferrovia Transcontinentale.
Durante la seconda metà del diciannovesimo secolo il prolifico scrittore Horatio Alger diventò famoso per i suoi romanzi che idealizzavano il Sogno Americano. Le sue storie di persone povere ed emarginate, che tramite i loro sforzi riuscivano a conquistare ricchezza e successo, contribuirono all'insediarsi del Sogno Americano nella cultura popolare.
Con l'avvicinarsi del XX secolo, le grandi personalità dell'industria divennero le nuove icone del Sogno Americano, dato che molti di loro erano arrivati a controllare grandi industrie e immensi capitali pur provenendo da bassissime condizioni sociali; famosi esempi di ciò si trovano nei capitalisti Andrew Carnegie e John D. Rockefeller. L'acquisizione di un notevole benessere dimostrava che, avendo talento, intelligenza e costanza di lavorare duramente, era possibile avere successo nella vita.
Per tutto il diciannovesimo secolo, gli emigranti fuggirono dalle monarchie dell'Europa Occidentale, che con la loro economia post-feudale, caratterizzata da una pesante tassazione, opprimevano la classe povera e soffocavano lo sviluppo, mentre l' economia americana era costruita da persone che erano consapevolmente libere da tali costrizioni.
Chi arrivava nel Nuovo Mondo portava con sé anche la speranza dell'uguaglianza. In quello che è forse il suo discorso più famoso, Martin Luther King nomina il Sogno Americano:

Il sogno americano oggi

Nel corso del XX secolo, il Sogno Americano ha avuto le sue sfide. La Grande depressione causò vaste sofferenze e privazioni durante gli Anni Trenta, e fu quasi un rovesciamento del sogno per le persone che ne furono direttamente colpite. I fermenti razziali non scomparvero, ed in certe zone degli Stati Uniti la violenza razziale era comunissima. C'erano anche ansia e preoccupazione per la campagna antidemocratica nota come Maccartismo, ingaggiata contro i sospettati di simpatie comuniste.
Dalla fine della seconda guerra mondiale, le giovani famiglie americane cercarono di vivere con relativo benessere e stabilità nei sobborghi che venivano costruiti attorno alle maggiori città. Questo portò all'arrivo dei (relativamente) conservatori anni cinquanta, quando molti inseguirono la "famiglia perfetta" come parte o conseguenza del Sogno Americano. Questo stato di cose fu infranto da una nuova generazione di giovani che abbracciarono i valori hippie degli anni sessanta, negando i valori tradizionali come il Sogno Americano. In tempi moderni, il Sogno Americano è visto come un possibile traguardo, dato che tutti i bambini possono andare a scuola e avere un'istruzione. Anche se la spinta verso di esso diminuì durante quegli anni, il sogno in sé non morì mai.
Negli anni novanta, la ricerca del Sogno Americano può essere individuata nel boom delle cosiddette Dot-com. La gente negli Stati Uniti, come nel resto del mondo, ha investito le sue energie nella nuova corsa all'oro di Internet, sempre guidata dalla stessa fede secondo cui chiunque, con abilità e duro lavoro, può avere successo in America. Persone normalissime misero in piedi delle compagnie dal loro stesso garage di casa e divennero milionari. Questo nuovo capitolo del Sogno Americano di nuovo divenne un richiamo per il mondo e attrasse molte persone intraprendenti dalla Cina e dall'India verso la Silicon Valley per avviare nuove aziende e cercare fortuna in America.

Un esempio recente della realizzazione del Sogno Americano è il caso di Tamir Sapir. Immigrato della Georgia, Sapir arrivò in America nel 1973 e iniziò a lavorare come tassista a New York. Mettendo da parte risparmi per acquistare un negozio di elettronica, si conquistò principalmente la clientela russa. Alla fine stabilì contatti con la delegazione Sovietica alle Nazioni Unite a New York, e commerciò materiale elettronico in cambio di contratti petroliferi, che poi vendette a compagnie Americane. Investendo i profitti in beni immobili a Manhattan, diventò un miliardario nel 2002, meno di trent'anni dopo essere arrivato in America senza un soldo in tasca. Come molte storie di persone passate dalla povertà alla ricchezza, la sua è una storia unica che sarebbe difficile ripetere. Oggi Sapir sta diventando noto come il "tassista milionario" d'America.
Il grande sogno americano, insomma, vive tutt'oggi nell'immaginario collettivo di chi vive negli Stati Uniti se si vuole provare a fare qualcosa e di chi decide di emigrarvi: est europei, africani, asiatici, scandinavi, irlandesi (c'è disoccupazione e sovrappopolazione). Persone e filosofie come quelle di Tony Robbins, il guru dell'automiglioramento, rappresentano oggi, valorizzandola, l'immagine del self made man, la prova che con il duro lavoro e la perseveranza i risultati ed il successo sono garantiti.

 



 

 

L’emigrazione di massa

L’emigrazione di massa (1876-1915)
  • 14 MILIONI D’ITALIANI EMIGRANO
    Dal 1876 alla Grande Guerra gli espatri sono oltre 14 milioni. Nei primi dieci anni la maggioranza parte verso l’Europa, dal 1886 prevalgono le Americhe, soprattutto quella meridionale (Argentina e Brasile) dove si dirige il 23% degli emigrati italiani: nel 1905 a Buenos Aires risiedono già 250 mila italiani; nella città di San Paolo su 260 mila abitanti circa metà (112.000) sono italiani. Alla predominanza iniziale dell’Argentina fa seguito la crescente rilevanza del Brasile, dove la fine della schiavitù (1888) ha un ruolo importante.
    All’inizio del XX secolo, a causa delle crisi economiche locali, il movimento decresce progressivamente al Sud e aumenta nel Nord America. L’emigrazione di lavoro negli USA si intensifica, infatti, a partire dal 1870. Nel 1881 entrano negli USA 11 mila italiani. Dopo il 1885 la media del decennio fino al 1895 è di 35 mila entrate l’anno. Nel decennio 1896-1905 la media annua è di 130 mila entrate (nel 1901 superano, per la prima volta, le 100 mila unità; nel 1905 raggiungono le 300 mila e toccano l’apice di 376 mila nel 1913).

    Dopo il 1901, quando ogni anno espatriano mediamente 500.000 italiani, quattro partenze su dieci si dirigono negli Stati Uniti. Qui, gli emigrati si concentrano nelle zone attigue agli sbarchi (New York, Boston, Philadelphia e New Orleans) e poi si dirigono verso grandi centri industriali e ferroviari come Chicago e San Francisco nell’Ovest. La presenza italiana rimane particolarmente numerosa negli stati della costa (New York, New Jersey, Pennsylvania, Rhode Island, Massachusetts). Lo sviluppo delle Little Italies porta a privilegiare soprattutto i mestieri funzionali allo stesso insediamento come negozi, ristoranti, panifici, pizzerie.
    Nell’immaginario collettivo di questo periodo sono abituali le scene dei piroscafi diretti oltreoceano, degli sbarchi a Ellis Island, degli italiani nelle fazendas del Brasile o a Buenos Aires. Sono rare, invece, le immagini di una emigrazione italiana verso l’Europa, che viene ricordata solo per l’esodo del secondo dopoguerra. Eppure, dal 1876 al 1915, se 7,6 milioni di persone emigrano nelle Americhe, oltre 6,1 milioni si recano in Europa che è, comunque, la prima destinazione degli italiani dal 1876 al 1885, accogliendo il 64% degli emigrati della decade.

    Solo nei decenni successivi questa percentuale cala e aumentano le partenze americane. Nei quarant’anni dell’emigrazione di massa, in Europa, ci si dirige soprattutto in Francia, seguita dall’Austria-Ungheria, dalla Svizzera e dalla Germania, mentre le più lontane Gran Bretagna e Belgio ricoprono un ruolo minimo.
    Le destinazioni sono anche frutto della trasformazione nelle professioni dei migranti, che dagli anni 1890 mirano sempre più alle industrie, grandi e piccole: in Francia nelle fabbriche di semi oleosi, di sapone, di vetro, di candele e nei cantieri navali di Marsiglia oppure nell’industria carbo-siderurgica della Lorena, del Lussemburgo, della Mosella, della Westfalia. L’emigrazione verso l’Europa interessa dapprima le regioni del Nord Italia, le prime coinvolte nel movimento migratorio perché favorite dalla vicinanza geografica. Tra il 1876 e il 1900 il Veneto invia circa 300 mila emigrati in Germania su un totale per il Regno di 354 mila. Su un totale di circa 100 mila emigrati in Germania nel 1905, 22 mila erano donne, per lo più venete, lombarde e toscane, impiegate nei cotonifici, setifici e nelle cartiere. I miglioramenti nelle vie di comunicazione e nei mezzi di trasporto aprono, poi, la partecipazione al movimento migratorio anche delle altre regioni italiane.
  • LA PREPARAZIONE DEL VIAGGIO

    Speranze, illusioni, inganni: gli agenti d’emigrazione «Il Regno di Napoli è finito. Il regno di queste genti senza speranza non è di questa terra. L’altro mondo è l’America, che ha per i contadini una doppia natura. È terra dove si va a lavorare, dove si suda e si fatica, dove il poco danaro
    è risparmiato con mille stenti e privazioni, dove qualche volta si muore e nessuno più si ricorda; ma nello stesso tempo è, senza contraddizione, il paradiso, la terra promessa del regno» (Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli).
    Spinti dalla miseria e dalla speranza di un futuro migliore, ma vittime dell’ignoranza e dell’analfabetismo, molti emigrati italiani sono facili prede di sfruttatori, «la cui propaganda – con le parole dello scalabriniano Pietro Maldotti che al porto di Genova opera per sventare le trame degli agenti d’emigrazione – è implacabile e irrefrenabilmente scandalosa tanto da promettere ricchezze straordinarie e fortune colossali a quanti si dirigono in America, dove le strade sono coperte d’oro e si mangia a sazietà».

    Non sempre, così, le informazioni ufficiali e le numerose guide all’emigrazione redatte dallo Stato, tramite il Commissariato Generale, per ogni paese di insediamento trovano un pubblico attento tra i candidati all’emigrazione, anche perché capillare e continuo è il lavoro degli agenti d’emigrazione. «Da per tutto sono sparsi commessi che fiutano intorno la miseria e il malcontento e offrono il biglietto d’imbarco a quei disgraziati che vogliono abbandonare la patria, o li eccitano a vendere la casa, le masserizie e la terra, per procurarsi il denaro per il viaggio. Nella prima
    fase dell’emigrazione di massa l’agenzia di emigrazione è un’impresa privata che nasce e ha la sua sede principale solitamente nelle città costiere, sedi dei porti d’imbarco per le Americhe. Gli agenti sono avventurieri che si recano personalmente nelle zone in cui si manifestano tassi di espatrio consistenti per reclutare emigranti e indirizzarli verso le compagnie di navigazione disposte ad offrire provvigioni più alte per ogni emigrante arruolato».
    Con l’espandersi del mercato, gli agenti rimangono nelle città costiere a negoziare il prezzo con le compagnie di navigazione, mentre i subagenti girano per il territorio alla ricerca di emigranti. Il numero degli agenti e subagenti raggiunge 13.000 unità nei primi anni del 1900. Con la legge del 1901 la figura dell’agente viene abolita. Il compito di arruolare i migranti è dato a una ventina di compagnie di navigazione, previa autorizzazione ministeriale. Naturalmente, per svolgere il loro lavoro le compagnie hanno bisogno di subagenti, arruolati tra coloro che esercitavano la professione in proprio e che ora diventano rappresentanti di vettore, lavoratori dipendenti.
  • LA PARTENZA: I PORTI

    L’emigrazione transoceanica cresce anche grazie al progresso nel trasporto marittimo, con lo sviluppo dei piroscafi a vapore. Agli inizi molti italiani emigrano dai porti europei di Le Havre, Marsiglia, Amburgo, Anversa. Tale scelta è determinata dalle misure restrittive dell’emigrazione italiana, adottate per sostenere le rivendicazioni dei proprietari terrieri. Per sfuggire ai controlli e alla coscrizione militare, i migranti partono senza passaporto verso l’Europa e poi verso le Americhe.
    Con la liberalizzazione susseguente alla legge del 1901, la gran parte del flusso si sviluppa dai porti italiani. Il porto di Genova, dove era di stanza la marina mercantile italiana, sviluppa il traffico verso il Sud America. Il porto di Napoli, che in breve supera quello di Palermo, Messina e Genova, sviluppa il trasporto verso il Nord America.
    Le partenze da Napoli sono soprattutto di uomini adulti, bambini, braccianti e, dopo il 1893, anche di gente qualificata. Invece le partenze da Le Havre e Genova verso gli Stati Uniti (ridotte a solo il 10% negli anni 1890) sono di contadini e donne. Anche se la grande emigrazione viene spesso rappresentata come una emigrazione familiare, in realtà coloro che si recano negli Stati Uniti sono soprattutto individui singoli. I familiari arrivano in seguito. A differenza dei grandi porti europei dotati di “Ricoveri per emigranti”, i porti di Genova, Napoli, Palermo non sono adeguati a gestire la grande massa di migranti che vi si reca in attesa di imbarco. Le uniche strutture sono quelle
    adibite ai controlli igienici e sanitari. Infatti, «nelle stazioni marittime gli emigranti sono sottoposti a visita medica e i loro bagagli bonificati. Una volta espletate queste operazioni [...] gli emigrati restano sulla banchina in attesa di partire».
    La folla di migranti al porto ha anche un impatto sulla città, che li considera con pietà, ma più spesso con paura, mentre mancano dispositivi di tutela e assistenza. Gli agenti accompagnano i migranti nelle locande autorizzate, dal momento che la legge del 1901 prevede che le spese in attesa dell’imbarco siano a carico delle Compagnie di navigazione. Naturalmente, i migranti finiscono sfruttati dalle compagnie, dagli agenti, dai locandieri che cercano di realizzare un doppio guadagno. «Nel 1905 le locande autorizzate sono 87 a Napoli, con la disponibilità di 2.400 posti letto, 33 a Genova con 720 posti letto, 25 a Palermo con 770 posti e 18 a Messina con 341 posti». Accanto a quelle autorizzate, vi sono poi le locande non autorizzate, situate spesso nei quartieri più sudici, in case vecchie, con poca aria e poca luce, dove secondo un verbale sanitario del 1903 «in due ambienti privi d’aria, sporchi, umidi e puzzolenti dormivano 50 emigranti la maggior parte per terra». Mentre le prime rimangono vuote, le seconde, che consentono un risparmio alle compagnie sul prezzo stabilito, sono sovraffollate. In questa fase è assente l’azione dello Stato, che solo nel 1911, dopo il colera a Napoli, istituisce il ricovero di stato. A Palermo nel 1907 è aperta una “Casa dell’emigrante”, per iniziativa di volontari, ed è messa sotto la tutela del Commissariato Generale. I testimoni dell’epoca parlano, comunque, del primo come una prigione e del secondo come una caserma.
  • IL VIAGGIO: NAVI E NAUFRAGHI
    Le compagnie di navigazione utilizzano il trasporto dei migranti come volano per il passaggio della marina da una fase pre-industriale a una moderna. I trasporti dei migranti verso l’America del Sud sono appannaggio delle compagnie genovesi, che utilizzano i classici velieri. Con il passaggio ai piroscafi a vapore, molte compagnie chiudono i battenti, perché prive di capitali necessari per investire nella nuova tecnologia. Il trasporto dei migranti è, comunque, l’attività che permette di sopravvivere ed espandersi, nonché di contribuire allo sviluppo dell’industria cantieristica e siderurgica. Il grande traffico verso il Nord America è gestito soprattutto dalle compagnie straniere, più organizzate e tecnologicamente avanzate.
    Naturalmente, al trasporto dei migranti sono assegnate le carrette del mare, con in media 23 anni di navigazione. Si tratta di piroscafi in disarmo, chiamati “vascelli della morte”, che non potevano contenere più di 700 persone, ma ne caricavano più di 1.000, che partivano senza la certezza di arrivare a destinazione. E molti periscono in quei tragici viaggi verso la speranza: 576 emigrati, quasi tutti meridionali, nel naufragio dell’“Utopia” avvenuto il 17.3.1891 davanti al porto di Gibilterra; 549 emigrati, di cui numerosi italiani, nel naufragio del “Bourgogne” avvenuto al largo della Nuova Scozia il 4.7.1898; 1.198 emigrati, di cui numerosi italiani, nel naufragio dei due “Lusitania”, avvenuti il primo nelle acque di Terranova il 25.6.1901 e il secondo affondato da un sottomarino tedesco il 7.5.1915; 550 vittime del naufragio del “Sirio”, avvenuto il 4.8.1906 sugli scogli della costa spagnola di Cartagena; diversi italiani dei 1.523 morti nel naufragio del “Titanic” avvenuto il 14.4.1912 dopo aver urtato un iceberg; 206 morti, quasi tutti emigranti, nell’affondamento del piroscafo “Ancona”, avvenuto il 7.11.1915 da parte di un sottomarino austriaco; 314 vittime (657 denunciate dal “Clarin” di Buenos Aires) nel naufragio della nave “Principessa Mafalda”, avvenuto il 25.10.1927 al largo del Brasile; 446 italiani dell’“Arandora star” vittime dei siluri di un sottomarino tedesco il 2.7.1940.
    Il viaggio via mare verso le Americhe non è una crociera per i migranti. In genere vengono stivati in terza classe, in condizioni pietose e prive di igiene. In fondo non si trattava che di “tonnellata umana”, così come veniva chiamato il carico umano degli emigranti che «accovacciati sulla coperta, presso le scale, col piatto tra le gambe e il pezzo di pane fra i piedi, mangiavano il loro pasto come i poverelli alle porte dei conventi. È un avvilimento dal lato morale e un pericolo da quello igienico, perché ognuno può immaginarsi che cosa sia una coperta di piroscafo sballottato dal mare, sulla quale si rovesciavano tutte le immondizie volontarie e involontarie di quelle popolazioni viaggianti» (Teodorico Rosati, ispettore sanitario sulle navi degli emigranti,1908).
    Per dormire, «l’emigrante si sdraia vestito e calzato sul letto, ne fa deposito di fagotti e valigie, i bambini vi lasciano orine e feci; i più vi vomitano; tutti, in una maniera o nell’altra, l’hanno ridotto, dopo qualche giorno, in una cuccia da cane. A viaggio compiuto, quando non lo si cambia, ciò che accade spesso, è lì come fu lasciato, con sudiciume e insetti, pronto a ricevere il nuovo partente» (Teodorico Rosati, ispettore sanitario sulle navi degli emigranti, 1908).
    In tali condizioni, contrarre una malattia è frequente, e non mancano i decessi come rivela il diario di bordo del piroscafo “Città di Torino” nel novembre 1905: «Fino ad oggi su 600 imbarcati ci sono stati 45 decessi dei quali: 20 per febbre tifoide, 10 per malattie broncopolmonari, 7 per morbillo, 5 per influenza, 3 per incidenti in coperta».
    Tra i casi più clamorosi di “vascelli fantasma” con decine di morti durante la traversata, il “Matteo Brazzo”, nel 1884, in un viaggio di tre mesi con 1.333 passeggeri ha avuto 20 morti di colera ed è stato respinto a cannonate a Montevideo; il “Carlo Raggio” in un viaggio del 18.12.1888 con 1.851 emigranti ha avuto 18 vittime per fame e in un altro viaggio, del 1894, 206 morti di cui 141 per colera e morbillo; il “Cachar” che partito per il Brasile il 28.12.1888 con 2.000 emigranti ha avuto 34 vittime per asfissia e altri per fame; il “Frisia” in viaggio per il Brasile il 16.11.1889 ha avuto 27 morti per asfissia e più di 300 ammalati; nello stesso anno sul “Parà” un epidemia di morbillo uccide 34 persone; il “Remo”, partito nel 1893 con 1.500 emigranti, ha avuto 96 morti per colera e difterite e fu respinto dal Brasile; l’“Andrea Doria” nel viaggio del 1894 ha contato 159 morti su 1.317 emigranti; sul “Vincenzo Florio” nello stesso anno i morti sono stati 20 su 1.321 passeggeri.Infine, le navi per emigranti, per tutto l’Ottocento, mancavano di infermerie, ambulatori e farmacie, tanto che, tra il 1897 e il 1899, più dell’1% degli arrivati a New York è respinto in Italia perché ridotto in cattivo stato dai disagi e dalle sofferenze del viaggio.
  • L’ARRIVO
    La località, diventata un’icona dell’emigrazione, dove sono registrati, tra il 1892 e il 1924, gli arrivi di 22milioni di immigrati negli Stati Uniti, è l’isola di Ellis Island, nel golfo di New York. Infatti, se i passeggeri di seconda classe ricevono il permesso di andare a terra senza passare dall’isola, perché i funzionari salgono a bordo all’entrata del porto e li esaminano a bordo, gli emigrati, invece, che viaggiano in terza classe, devono scendere al porto e risalire su battelli che li conducono a Ellis Island, dove ricevono la visita medica. Coloro che la passano vanno poi nella
    grande sala di registrazione. Coloro che non passano la visita vengono messi in quarantena nell’ospedale locale, al termine della quale ricevono il nulla osta per entrare negli Stati Uniti, tranne nel caso di infermità particolari (zoppi, gobbi, menomati, con malattie degli occhi o della pelle o con difetti psichici), per le quali sono costretti a tornare in patria. Le donne sole, anche se fidanzate, non potevano essere ammesse e dovevano celebrare il matrimonio a Ellis Island. I minorenni soli dovevano trovare i garanti e gli orfani dovevano essere adottati, altrimenti venivano respinti.
    A New York, dal 1892, e poi nel porto di Boston operava anche la Società San Raffaele, fondata da Mons. Scalabrini, con il compito di seguire i casi pietosi di donne e bambini: molti minorenni che dovevano essere espulsi venivano così affidati alla San Raffaele, che cercava  di ottenere l’adozione o l’affido presso altre famiglie italiane. Nel 1931, Edoardo Corsi, nominato direttore di Ellis Island dove lui stesso era sbarcato nel 1907, afferma: «Le nostre leggi sul rimpatrio sono inesorabili e in molti casi disumane, particolarmente quando si riferiscono a uomini e donne dal comportamento onesto il cui unico crimine consiste nel fatto che hanno osato entrare nella terra promessa senza conformarsi alla legge. Ho visto centinaia di persone del genere costrette a ritornare nei paesi di provenienza, senza soldi e a volte senza giacche sulle spalle. Ho visto famiglie separate, che non si erano mai riunite: madri separate dai loro figli, mariti dalle loro mogli, e nessuno negli Stati Uniti, nemmeno il Presidente in persona, poteva evitarlo».
    Lo stesso Scalabrini è stato testimone nel 1901 al porto di Ellis Island di un episodio di violenza contro gli emigrati italiani. Qualche giorno dopo il suo arrivo a New York, dove era stato calorosamente accolto da italiani e americani, Scalabrini ritorna ad Ellis Island per assistere allo sbarco di 650 italiani. E là assiste all’episodio di maltrattamento di un emigrato da parte di un poliziotto. Eccone il racconto così come risulta da un’intervista rilasciata da Scalabrini stesso ad un giornale italiano: «Gli Italiani si son veduti nel mondo, per molto tempo, senza tutela alcuna e fra il disprezzo degli altri. Quindi sono stati tratti a difendersi da sé. Han fatto male, ma bisogna anche vedere come sono trattati talvolta […]. Io stesso a Ellis Island, mentre mi vi trattenevo a studiare quell’ospizio, ho veduto un guardiano ordinare ad un emigrante di affrettarsi ad uscire. L’emigrante non poteva correre perché portava due grandi valigie, e perché dinanzi a lui c’era la folla. Il guardiano allora, con un grosso bastone, gli applicò un terribile colpo sulle gambe, per cui mi parve gliele avesse spezzate. L’Italiano, senza dir parola, posò le valigie, si volse e diede due potenti schiaffi al suo bastonatore, poi mormorò: “se avessi avuto un revolver l’avrei ucciso”.
    E certo avrebbe fatto male; ma perché dei funzionari devono incrudelire contro dei tranquilli operai e invece di infonder loro, al momento dell’arrivo, un po’ di confidenza nel nuovo paese, li trattano come animali e peggio? ».
    In Brasile, l’accoglienza e gli uffici di collocamento che si occupavano degli immigrati a Santos e a San Paolo erano peggio organizzati rispetto a quelli degli Stati Uniti. Soprattutto l’aspetto igienico-sanitario lasciava a desiderare in queste “Hospedarias”, piene all’inverosimile di immigrati e dove facilmente scoppiavano epidemie di ogni genere. A Rio de Janeiro, poi, il modo in cui venivano accolti gli immigrati era spaventoso: fino al 1891 questi erano alloggiati nell’Ilha das Flores, situata nella baia di Rio, dove la febbre gialla, il vaiolo e la peste li decimavano, tanto che nel solo 1890 vi morirono 428 minori (Rapporto consolare di C. Bertola, 12.3.1892).
    A fine Ottocento il porto di Buenos Aires, in Argentina, viene dotato di un albergo governativo per
    gli immigrati (Hotel de Inmigrantes) con ampie sale e spaziosi cortili, che poteva contenere fino a 4.000 persone. Il trattamento era discreto e abbastanza efficiente il collocamento ad opera dell’Ufficio di Colonizzazione.
  • IL LAVORO
    L’unica ricchezza che gli emigrati italiani portavano con sé era la forza delle loro braccia, che finivano a svolgere i lavori più pesanti e rifiutati dagli altri, come le opere stradali o ferroviarie e il piccolo commercio, attività capaci di garantire un guadagno immediato da spedire alla famiglia rimasta in Italia. In questo modo, secondo il Commissariato dell’Emigrazione, negli anni precedenti la Prima guerra mondiale le rimesse degli emigrati, frutto di risparmi, superano i 500 milioni di lire l’anno.
    La colonizzazione agricola (a Santa Fé, Chaco Australe, Cordoba, Buenos Aires, Entre Rios, Mendoza, Nuova Roma, Esperanza, San Carlos) da parte degli italiani è uno dei capitoli più riusciti dell’intera storia dell’Argentina. Gli italiani hanno portato nelle province di Cordoba e Mendoza la coltivazione della vite: nel 1910 erano attive a Mendoza più di 780 cantine e 675 distillerie, quasi tutte di italiani.
    In Brasile, nello stato di San Paolo e di Minas Gerais era diffuso il sistema della fazenda per la coltivazione di caffè o di cotone. Il Commissario A. Rossi nell’inchiesta del 1901 così descrive la situazione delle fazendas in cui erano impiegati gli italiani: «Anche nelle zone meno cattive e sotto padroni che pagano puntualmente e che non hanno figli o amministratori i quali violentino le donne e frustino gli uomini, la condizione del colono e della sua famiglia è tale che le eventuali economie vengono fatte a costo di mille sacrifici: mancanza assoluta di scuole e di chiese, lontananza grande da qualsiasi centro abitato, prezzi altissimi per visite di medici ed acquisto di medicine, disciplina che spesso fa somigliare una fazenda a una colonia di condannati a domicilio coatto».
    Nonostante il duro regime della fazenda, gli italiani sono riusciti ad avviare un vasto tessuto artigianale e industriale che ha permesso, poi, il decollo economico dello stato di San Paolo. È nel Brasile meridionale, soprattutto nel Rio Grande do Sul, che troviamo le pagine più belle della colonizzazione italiana, dove i nomi delle città, la lingua, i costumi, il folclore erano espressione
    quotidiana di una profonda italianità.
    Anche nell’Ovest americano l’emigrazione italiana ha avuto esiti positivi in diversi ambiti: dal lavoro nei campi, alla coltivazione della vite, alla pesca, al piccolo commercio. Nel 1910 le aziende agricole, tenute da italiani, erano 2.500; in California c’erano 5 banche italiane nel 1908 (nessuna a New York nello stesso periodo), di cui la più famosa è la Bank of America and Italy, divenuta poi Bank of America. Le più importanti colonie italiane del West sono state la Italian Swiss Colony di Asti, California, la Italian Vinayard Co. di Cucamonga, California, le Colonie di Napa Valley, Sonoma, Santa Clara Valley, Mendoncino, San Joaquin Valley, Monterrey.
    Uno degli aspetti più tragici dell’emigrazione è lo sfruttamento dei minori. Tra Ottocento e Novecento i bambini sono venduti a decine di migliaia per 100 lire l’uno a trafficanti che li rivendevano alle miniere americane, ai cantieri svizzeri, alle vetrerie francesi… Il diplomatico Paolucci de Calboli ricorda che, solo negli Stati Uniti, a fine Ottocento si calcolavano 80.000 minori italiani d’ambo i sessi appartenenti a quella categoria di girovaghi da cui escono delinquenti e prostitute. Questi bambini, infatti, cominciavano raccogliendo legna o carbone negli scarichi, vendendo i giornali per strada, portando il lavoro dalla fabbrica a casa, e vivevano più per strada che a casa o a scuola e molti finivano per compiere lavori poco onesti.
    La storia dell’emigrazione italiana è segnata anche da grandi tragedie e lutti, dovuti a volte da calamità naturali e spesso da errori umani o da decisioni infami, come la strage di operaie accaduta a New York il 25.3.1911, quando un incendio devastò gli ultimi piani di un palazzo che ospitava una camiceria dove lavoravano in condizioni disumane, con le porte sbarrate dall’esterno, 500 donne: delle 146 vittime 39 erano italiane.
    Il disastro di Monongah
    Il 6 dicembre 1907, nelle gallerie 6 e 8 della miniera di carbone di Monongah, cittadina del West Virginia, ebbe luogo il più grave disastro minerario della storia degli Stati Uniti d’America.
    L’incidente rappresenta anche la più grave sciagura mineraria italiana: se nell’assai più noto disastro di Marcinelle, in Belgio, perirono 262 persone, 136 delle quali italiane, Monongah con i suoi morti rappresenta l’icona del sacrificio dei lavoratori italiani costretti ad emigrare per sopravvivere.
    Le vittime furono inizialmente calcolate «in circa 350», ma già nei giorni successivi alcuni giornali parlarono di 425 morti e tale cifra divenne infine quella “ufficiale”, confermata dai rapporti della Monongah Mines Relief Committee, la commissione che provvide al risarcimento dei parenti dei
    minatori scomparsi. Le 171 vittime “ufficiali” italiane erano soprattutto emigrati molisani (un centinaio), calabresi (una quarantina) e abruzzesi (una trentina).
    Il numero e l’identità di molti scomparsi sono rimasti ignoti a causa della presenza di quei minatori che all’ingresso in miniera non venivano registrati negli elenchi della Fairmont Coal Company. Il buddy system permetteva infatti ai minatori di avvalersi, senza esser obbligati a darne comunicazione al datore di lavoro, dell’aiuto di parenti - anche bambini - e amici con i quali poi dividevano la paga. La retribuzione non era legata alle ore effettivamente lavorate ma alla quantità di carbone portato in superficie. Le attuali ricostruzioni indicano che nell’incidente perirono 956 lavoratori, di cui - secondo le ricerche del giornale “Gente d’Italia” - più di 500 italiani.
  • LE CONDIZIONI DI VITA - Il peso del rifiuto e della discriminazione
    Le condizioni di vita degli emigrati italiani nelle grandi città americane sono spaventose a causa del malsano affollamento di uomini, donne e bambini agglomerati nella promiscuità e nel disordine. «A Bayard Street, nella Little Italy di New York, in un solo isolato di caseggiati che totalizzava 132 stanze, vivevano 1.324 italiani, per lo più uomini, operai siciliani che dormivano in letti accastellati a più di dieci persone per camera […]. Vi sono non meno di 360.000 camere abitate, senza finestre, nella sola New York, occupate in gran parte da italiani […]. Spesso otto, dieci e più persone dormono in una sola camera, alcune di esse affette da tisi o altra malattia contagiosa. In moltissime abitazioni si esercitano mestieri malsani come quello di lavorare gli stracci o di confezionare e accomodare gli abiti. Data la necessità e anche l’abitudine di tener chiuse ermeticamente le finestre durante gran parte dell’anno, è facile immaginare in che atmosfera viziata si viva» (Jacob Riis).
    In Brasile, scrive al suo vescovo in Italia il sacerdote Don Munari che aveva accompagnato 275 emigrati nel 1876, «i coloni vivono in mezzo ad una selva e sono dapprima senza un tetto […] e poi sistemati in capanne fatte di canne, dove l’aria e l’acqua tengono sempre il loro dominio».
    Dei 4 milioni di italiani emigrati negli Stati Uniti dal 1880 al 1915, numerosi si stabiliscono a New York che diventa la più grande città italiana (più di 500 mila), altri a Philadelphia (90.000), Chicago (70.000), Pittsburg (40.000), Boston (25.000), S. Francisco (20.000), Baltimora (20.000) e New Orleans (15.000). Questa preferenza urbana non dipendeva dalla libera scelta dei “contadini” italiani, ma dalla necessità di guadagni immediati che solo le metropoli, particolarmente bisognose di manodopera poco qualificata, potevano offrire.
    Questi emigrati, spesso supersfruttati, venivano comunque considerati dalla società ospitante come “indesiderabile people”. E la loro segregazione in ghetti, denominati Little Italy, veniva giustificata dall’impossibilità del cafone meridionale, proveniente da una civiltà statica e contadina, di inserirsi in un contesto urbano dinamico e innovativo. Ad un emigrato che scriveva: «Se l’America ci ignora, noi ignoriamo l’America e per sopravvivere torniamo alle usanze del paese che abbiamo lasciato», faceva eco l’opinione corrente, anche scientifica, che riteneva l’italiano meno assimilabile e meno americanizzabile degli altri immigrati.
    Le manifestazioni di autodifesa delle comunità etniche degenerarono, a volte, in forme di banditismo urbano o di delinquenza organizzata, specie per quei gruppi che già erano stati respinti ai margini nella società d’origine. L’iniziale atteggiamento di anti-italianità si trasforma rapidamente in vero pregiudizio razziale: gli italiani diventano, così, nell’immaginario collettivo criminali incalliti, sporchi, ignoranti, facili al coltello, mafiosi, straccioni, capaci solo di lavori pesanti o, al massimo, di vendere noccioline.
    La xenofobia produce, perciò, numerosi casi di violenza contro gli italiani in paesi come l’Algeria, l’Argentina, l’Australia e l’America. Fra gli avvenimenti più gravi ai danni degli italiani si ricordano alcuni esempi:
    - New Orleans (14.3.1891): 11 italiani sono massacrati da 20 mila manifestanti che avevano assaltato il carcere accusandoli di essere colpevoli dell’omicidio del capo della polizia di New Orleans, omicidio dal quale erano stati assolti. Il linciaggio era stato compiuto con una chiara responsabilità delle autorità locali che, pur essendo a conoscenza del progetto delittuoso e nonostante le richieste di protezione del console italiano, non avevano fatto nulla per impedire l’eccidio.
    - Aigues-Mortes (17.8.1893): circa 2.000 operai francesi linciano 11 italiani (secondo il processo farsa che assolse tutti gli imputati; più di 200 secondo la stima di studiosi italiani) accusati di rubare il lavoro dei francesi nelle saline della Camargue, alle foci del Rodano.
    - Zurigo (8.8.1896): si devono organizzare treni speciali per portare in salvo gli italiani da una spietata caccia all’uomo da parte di cittadini svizzeri.
    - Tallulah (21.7.1899): 3 fratelli e 2 amici siciliani sono assassinati dopo una banale lite perché accusati di essere troppo gentili con i neri.
  • LA GRADUALE INTEGRAZIONE, TRA LEGAME CON IL PAESE
    D’ORIGINE E INSERIMENTO NELLA SOCIETÀ DI ACCOGLIENZA
    La scuola
    Le scuole italiane all’estero, soprattutto private e parrocchiali, nascono dall’esigenza delle comunità di custodire nei figli il patrimonio culturale dei padri e anche di favorire un corretto inserimento (con l’insegnamento sia dell’italiano che dell’inglese) delle seconde generazioni nel nuovo continente, dove soprattutto negli Stati Uniti la scuola pubblica cercava di affrettare il processo di americanizzazione incentivando ogni forma di rifiuto delle tradizioni paterne.
    La religione
    Gli italiani portarono in emigrazione la loro fede popolare e tradizionale, colma di simboli, santi e processioni. Le feste religiose sono sempre state momenti intensi di vita comunitaria. Attorno alle parrocchie italiane nascono organizzazioni e società per la difesa dei diritti degli immigrati e per l’istruzione e la ricreazione dei bambini.
    L’associazionismo
    Pur vantando alcune organizzazioni assistenziali di grande rilievo, l’associazionismo italiano si è trovato spesso a combattere contro il campanilismo e l’individualismo di molte aggregazioni. Nel 1891 esistevano in Argentina 215 società italiane (di cui 198 di mutuo soccorso) con più di
    70.000 iscritti.
    La stampa
    La pubblicazione di opuscoli, bollettini, quotidiani, settimanali ha fin dall’inizio svolto un’opera di mediazione culturale tra le comunità immigrate, il paese di insediamento e l’Italia. Dei 280 periodici in lingua italiana editi all’estero (all’epoca della Prima guerra mondiale) più della metà era stampata negli Stati Uniti, dove primeggiava “Il Progresso Italo Americano” con 90.000 copie diffuse.
    La casa
    Uno dei momenti più significativi di inserimento nel paese di destinazione è la costruzione della casa. Nella foto è rappresentata la casa di Gaspare Andreussi e sua moglie Caterina Stroili, immigrati dalla provincia di Udine nel 1890 a Belo Horizonte, Brasile. Essi hanno costruito la casa negli anni 1900-1902, e l’hanno rivenduta quando sono tornati in Italia nel 1908. La famiglia è alla finestra, con tre dei loro cinque figli, tutti nati a Belo Horizonte. Un cliente occasionale è sul gradino d’ingresso. La casa era situata in Rua dos Tupís.

18 novembre 1943

Giovedì 18 novembre 1943       "Accadeva 70 anni fa"


Scioperi operai in tutto il Nord Italia
Scioperi operai in tutto il Nord Italia.
Sfondamento delle difese tedesche sul Dnepr a Čerkassy
Fronte sovietico. A sud-est di Kiev, i sovietici sfondano le difese tedesche sul Dnepr presso Čerkassy, e riconquistano Ovruc a nord-ovest della stessa città. Nel settore di Zitomir, sono costretti invece ad arretrare sotto la pressione tedesca. Nel settore centrale, i tedeschi sono minacciati di accerchiamento a Gomel dalla rapida espansione del saliente di Recica, a ovest della stessa città.