venerdì 6 dicembre 2013

L'Europa ci boccia dobbiamo cambiare le pensioni Ecco chi ci rimette



Quella di ieri è stata una giornata tachicardica per i pensionati e i lavoratori italiani. Il messaggio di fondo è chiaro. C’è un allarme sul patrimonio dell’Inps. O si fa una nuova riforma del sistema pensionistico o dopo il 2015 saranno guai grossi. Il numero uno dell’Istituto, Antonio Mastrapasqua, ha chiesto al ministro del Lavoro e a quello dell’Economia di  fare un’attenta riflessione. Perché nei conti dell’Inps, che ormai sono un bilancio unico con quello del comparto pubblico, «il disavanzo patrimoniale ed economico è qualcosa che, visto dall’esterno, può dare segnale di non totale tranquillità».  Parlando davanti alla commissione bicamerale sul controllo degli enti previdenziali, Mastrapasqua ha spiegato che «l’origine della perdita dell’Inps deriva da uno squilibrio imputabile essenzialmente al deficit ex Inpdap, alla forte contrazione dei contributi per blocco del turnover del pubblico impiego e al continuo aumento delle uscite per prestazioni istituzionali». In poche parole, se si va avanti così, dopo il  2015, il buco patrimoniale potrebbe mettere in crisi il pagamento delle pensioni così come oggi è previsto per legge. Prima della riforma Fornero e del governo Monti l’Inps godeva, infatti,  di un tesoretto da circa 40 miliardi. Poi l’accorpamento con i due Istituti del pubblico impiego (Inpdap e Enpals)  ha portato in eredità una voragine. Dal bilancio di previsione 2013, approvato dal Consiglio di indirizzo e vigilanza (Civ) dell’Inps lo scorso febbraio, si capisce che quest’anno la super-Inps avrà un disavanzo di competenza di 10,7 miliardi per via dei 23,7 miliardi di disavanzo patrimoniale complessivo ex Inpdap.  Per l’assorbimento delle passività, l’Inps si troverà quest’anno con un patrimonio che da 41 miliardi (2011) sarà sceso a circa 15.  Nel 2014 e 2015 dovrebbero aggiungersi altri 10 miliardi di perdita all’anno. Risultato finale? Patrimonio negativo.
Sempre quest’anno l’Istituto sarà chiamato a erogare più o meno 265 miliardi contro un incasso non superiore a 213. Semplice, dunque, il patrimonio serve a tappare i mancati introiti legati al blocco del turnover. Ma se questo non c’è più, perché è andato a compensare i mancati versamenti o i ritardi dello Stato (gestioni Inpdap ed Enpals), e non ci sarà un’ondata di assunzioni (impossibile visto le stime sul Pil) la baracca non sta in piedi. A stretto giro di posta, le dichiarazioni di Mastrapasqua sono state rettificate dal titolare di via XX Settembre,  Fabrizio Saccomanni. «Nessun allarme», ha detto, «solo questioni tecniche». La cassa per le pensioni c’è. A quel punto, l’Inps ha diffuso un comunicato per chiudere la questione: «È solo un problema contabile, che non mina la certezza dei flussi finanziari. Nessun rischio né per oggi né per domani. Le pensioni sono e saranno regolarmente pagate». Vero. Ma il problema non riguarda i flussi finanziari, bensì - come scritto sopra - il patrimonio. E su questo aspetto nessuno ha rettificato.
Mercoledì, infatti, la trasmissione di Gianluigi Paragone, La Gabbia, ha mostrato una lettera dello scorso marzo (firmata da Mastrapasqua e indirizzata a Mario Monti e al ministro per gli affari correnti Elsa Fornero) in cui si scrive che il patrimonio netto basta appena a  sostenere «una perdita per non oltre tre esercizi».  Nessuno ha smentito il servizio andato in onda. D’altronde per una ventina di anni  l’Inpdap è sempre stata in rosso. I contributi non sono mai stati sufficienti a coprire le spese per le pensioni.  Politici e sindacalisti hanno sempre pensato che assumere nuovi lavoratori pubblici (per averne i contributi) fosse meglio che risolvere lo sbilancio. Poi con la crisi e il blocco del turnover si è pensato (vedi riforma Fornero) di bastonare i lavoratori subordinati, alzando le aliquote di Partite Iva e affini. Ma questo massacro (passaggio dall’attuale 27% di aliquota al 33% entro il 2018) alla fine porterà all’Inps “solo” 9 miliardi. Insufficienti per raddrizzare la baracca. Anche Libero lo scorso aprile ha lanciato l’allarme. Ha raccontato le riunioni per decidere tagli su tutti i fronti, compreso l’invio telematico del cud, la necessità di far pagare di più a certe categorie di lavoratori privati e l’ipotesi che l’esecutivo subentrante si sarebbe trovato ad affrontare l’ennesima riforma delle pensioni. La decima. I primi due punti si sono realizzati. Ieri Mastrapasqua ha confermato una diminuzione delle spese di funzionamento di 477 milioni di euro per l’anno 2013 e oltre 530 milioni di euro dal 2014. Resta il terzo punto. Che appare, dopo le conferme e le smentite di ieri, inevitabile. Bisogna mettere mano ancora all’indicizzazione delle pensioni (il cui blocco è stato tolto fino a 3mila euro) e affrontare il dramma  esodati. La questione più  grossa da risolvere è però il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo. Il secondo consente a fronte di misere pensioni una grande stabilità dei conti. Ma per tanti anni le pensioni elevate del sistema retribuitivo pre-Dini continueranno a essere pagate. E ciò non è più possibile. Queste dovrebbero essere riformulate.  E parecchio. L’alternativa alla riforma di tutto il sistema è una sola. Lo Stato dovrà, dopo il 2015, iniettare soldi nell’Inps prendendoli dal Fisco. Praticamente, morire di tasse prima della pensione.
Claudio Antonelli

L'Italia sempre più povera Dal 2007 lavoratori e pensionati hanno perso oltre mille euro

In cinque anni lavoratori e pensionati hanno subito una consistente perdita del reddito disponibile: più di 1000 euro. E' quanto rivela un'indagine della Cisl e dell'Università di Firenze sulle dichiarazioni dei redditi di lavoratori dipendenti e pensionati che si sono rivolti ai Caf Cisl tra il 2007 e il 2012. Secondo lo studio, presentato, nel quinquennio la perdita del reddito disponibile è stata del 5,7% per l'aumento dell'imposta netta dovuto al drenaggio fiscale (fiscal drag), per la crescita della fiscalità locale, per il mancato adeguamento delle detrazioni per lavoro dipendente e per pensioni, per l'insufficiente crescita del reddito reale che non riesce a compensare l'aumento dell'imposta netta.
In particolare, con riferimento al fiscal drag, l'indagine mostra come il mancato adeguamento dell'imposta all'inflazione durante il periodo 2007-2012 abbia determinato un minor reddito disponibile. I contribuenti Caf-Cisl hanno cumulato, nel periodo considerato, una perdita pari al 5,83% del reddito 2012 (circa 1040 euro): tale perdita è sopportata soprattutto dalle classi centrali (tra 10 e 55 mila euro di reddito complessivo 2012). Tra 29 e 50 mila euro la percentuale di reddito "perso" supera il 6%. Restano poco o per nulla toccati dal fenomeno i contribuenti all'interno della no tax area, molti dei quali con un'imposta netta pari a zero nei due scenari, così come rimangono solo marginalmente sfiorati dal fenomeno i redditi alti e medio alti (sopra i 55 mila euro l'entità del fenomeno è relativamente contenuta; è minima per i redditi superiori a 150mila euro); i lavoratori dipendenti subiscono più di tutti il mancato adeguamento del meccanismo irpef all'inflazione (la perdita cumulata, a valori 2012, è stimata al 6% del reddito 2012).

I Corazzieri


 


La Caserma "Alessandro Negri di Sanfront"

 L'edificio sede della Caserma dei Corazzieri fa parte del complesso di costruzioni monastiche annesse alla Chiesa di Santa Susanna, basilica le cui origini risalgono al VI secolo.

All'attuale configurazione architettonica si è pervenuti attraverso numerose ristrutturazioni avvenute sin dal 1590 per volere di Papa Sisto V, che vi sistemò le Monache di San Bernardo, e vede l'esistenza di due distinti fabbricati, a nord e a sud, rispettivamente a pianta quadrata con cortile interno l'uno e l'altro incorporante la chiesa medesima.
Dal 1870, una parte delle costruzioni passò al demanio statale venendo destinata a caserma, mentre un'altra rimase alle monache ormai presenti da quasi due secoli.
La divisione degli ambienti fu attuata, a detta dei più, con criteri abbastanza irrazionali, così verificandosi "la straordinaria circostanza che sulla stessa galleria stanno da un lato le suore di clausura, dall'altra i Carabinieri Guardie, salvo sempre e naturalmente i debiti diaframmi" (Apolloni Ghetti).
Corazzieri in addestramento all'interno del maneggio coperto
Nella parte rimasta in uso alle monache, le modificazioni sono state pressoché inesistenti e vi si leggono con chiarezza le varie fasi degli interventi dal tempo di Sisto IV a quello di Sisto V e Paolo V, mentre in quella della caserma, per il fatto di essere stata adibita a uso tanto diverso dall'originario, le trasformazioni sono state nel tempo varie, ma tali da non stravolgere il preesistente organismo architettonico.
La caserma dei Corazzieri è titolata al Maggiore Negri di SanFront, Comandante degli squadroni Carabinieri nel glorioso episodio della Carica di Pastrengo.
Si compone, tra l'altro, di una scuderia, di una selleria, di un maneggio coperto e di un laboratorio dove vengono realizzati su misura elmi e corazze.
In occasione di particolari cerimonie, la distanza che separa la caserma dal Quirinale viene coperta dai Corazzieri in formazione montata.

I nostri soldati nelle missioni internazionali

 
Migliaia di militari italiani sono impiegati in missioni all'estero: dai 3100 in Afghanistan a un soldato in Nigeria e Sud-Sudan
Migliaia di soldati italiani sono impiegati in missioni internazionali e lo ha ricordato il 4 novembre il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione della festa delle Forze Armate. Il ministro della Difesa, Mario Mauro, ha colto l'occasione per sottolineare come "due secoli fa i militari erano considerati il mezzo per fare la guerra. Oggi sono le persone che lavorano per evitarla, per interporsi tra coloro che invece vogliono farla''.
Ma quanti sono i nostri militari impiegati in missioni all'estero? Secondo gli ultimi dati forniti dal ministero della Difesa, il totale del personale impiegato è di 5.569 militari, in 31 attività e in 23 aree diverse. Si va dall'Afghanistan all'Iraq, dai Balcani al Libano, dalla Somalia alla Libia.
La forza maggiore è impiegata in Afghanistan, dove ci sono 3100 militari italiani sotto il comando dell'ISAF. Lo scopo principale è quello di sostenere il governo locale nello sviluppo e nel consolidamento delle istituzioni, affinché la nazione diventi stabile e sicura e non sia più un rifugio per il terrorismo internazionale. I nostri soldati partecipano all'addestramento delle Forze Armate afghane.
Un altro migliaio di soldati sono schierati in Libano, con l'Unifil, per garantire la sicurezza dei confini, in particolare dei valichi di frontiera con lo Stato di Israele e per creare le condizioni di sicurezza e stabilità necessarie per un pace duratura.
Sono più di 500, invece, i soldati che operano nei Balcani per aiutare gli Stati della ex Jugoslavia a raggiungere la sicurezza e la stabilità. I nostri militari partecipano all'addestramento delle forze di polizia locali e contribuiscono ad attuare gli accordi che prevedono di costituire in Kosovo un ambiente sicuro, per permettere il ritorno dei profughi.
In Somalia e nel Golfo di Aden ci sono 340 soldati italiani, impegnati soprattutto nella prevenzione e nella repressione degli atti di pirateria e rapina armata lungo le coste.
Il mese scorso il nostro governo ha dato il via libera all'operazione "Mare nostrum", dopo la tragedia al largo di Lampedusa con centinaia di migranti annegati. E' stata rafforzata la sorveglianza fra il nostro tratto di mare e le coste di Libia e Tunisia, per intervenire in caso di emergenze e per aumentare il livello di sicurezza nei soccorsi. L'Italia schiera 4 navi della Marina militare, due fregate e due pattugliatori, ma anche droni ed elicotteri con sistemi di visione notturna e radar di superficie.
Ma ci sono zone in cui il personale militare impiegato è decisamente inferiore, come nei casi estremi della Nigeria e del Sud-Sudan dove opera soltanto un militare per ciascuna nazione. In Nigeria la missione è gestita dall'Unione Europea attraverso l'Eucap, per migliorare le capacità delle forze armate nigeriane nella lotta la terrorismo e al crimine organizzato. Nel Sud-Sudan con la missione Unmiss per fornire supporto al governo locale, per prevenire i conflitti e rafforzare la sicurezza.

Corte dei Conti lancia l’allarme risanamento conti Inps



L’Inps ha registrato il primo disavanzo finanziario della sua storia e i conti del 2012 evidenziano un deficit per tutti i grandi fondi da esso amministrati. Queste sono le conseguenze delle riforme del lavoro e delle pensioni, aggravate dall’incorporazione della gestione previdenziale pubblica e dalla forte recessione in corso, pesano come un macigno sui conti dell’Inps. È la conclusione dell’analisi del bilancio Inps 2012 da parte della Corte dei Conti, per la quale appaiono indilazionabili misure di risanamento.

Per risanare i conti dell’ente previdenziale sarebbe necessario monitorare costantemente gli effetti delle riforme del lavoro e della previdenza sulla spesa pensionistica, ma anche avere una crescente attenzione al profilo dell’adeguatezza delle prestazioni collegate al metodo contributivo e degli eccessivi divari nei trattamenti connessi a quello retributivo, unitamente all’urgenza di rilanciare la previdenza complementare. Tutto ciò, sottolinea la Corte, introducendo provvedimenti miranti a riassettare l’intero ordinamento in materia, a chiarire la governance  e il ruolo stesso dell’Inps, oltre che l’assetto e le competenze dell’organo di vigilanza interno e della vigilanza ministeriale.

La Corte dei Conti ha poi rimarcato quanto abbia inciso sui conti e l’assetto dell’Inps l’incorporazione dell’Inpdap (l’altra grande cassa assorbita con la spendig review è l’Enpals). Nel contesto del marcato aumento delle prestazioni, la ripresa del flusso contributivo, alimentata dalla gestione privata e in particolare dal lavoro autonomo e ancor più dai parasubordinati, non riesce a ripianare lo squilibrio tra le ambedue essenziali componenti di quasi tutte le gestioni, non sufficientemente bilanciato da apporti statali quantitativamente e qualitativamente adeguati, con conseguente dilatazione dei saldi negativi e dell’indebitamento, aggravati dal fondo di nuova acquisizione dei dipendenti pubblici, in progressivo e crescente dissesto.

IMU prima rata: imprese beffate due volte


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Come si può chiedere alle imprese questo ulteriore sforzo che per la parte eccedente al 100% altro non è che un prelievo forzoso?

“Salta la copertura della prima rata dell’Imu perché la Pubblica amministrazione non salda i suoi debiti nei confronti delle imprese? Allora a pagare il conto saranno queste ultime che, per gli anni di imposta 2013 e 2014, si vedranno aumentare di 1,5 punti percentuali gli acconti fiscali Ires e Irap. Insomma, oltre al danno la beffa.

E’ molto duro il commento del segretario della CGIA, Giuseppe Bortolussi, in merito al provvedimento che il Ministero dell’Economia ha fatto scattare ieri, in ottemperanza ad alcune disposizioni previste nel decreto dell’agosto scorso che, ricordiamo, aveva esentato i proprietari di prima casa al pagamento della prima rata dell’Imu.

Sul fronte delle coperture, questo decreto ha stabilito che nel caso in cui l’Erario entro il 30 novembre non fosse riuscito a incassare 925 milioni di euro di maggiori entrate derivanti dall’Iva versata dalle imprese a seguito dell’impegno della Pubblica amministrazione di pagare 7,2 miliardi di euro di debiti scaduti e altri 600 milioni di euro dalla sanatoria rivolta ai concessionari dei giochi, sarebbe scattata la cosiddetta “clausola di salvaguardia“, che, puntualmente, è arrivata ieri.

Dei 7,2 miliardi di euro che la Pa doveva saldare alle imprese ne sono stati pagati solo 2, mentre dalla sanatoria risulterebbe che l’Erario ne abbia incassati poco più della metà.

Pertanto, il Ministero dell’Economia, al fine di garantire la copertura del gettito mancante, ieri ha dato luogo ad un provvedimento che ha stabilito l’aumento degli acconti Ires e Irap in capo alle società di capitali e alle banche, nonché al probabile incremento, a partire dal 2015, delle accise sul gas, sull’energia elettrica e sulle bevande alcoliche.

Ora, per l’anno di imposta 2013 le società di capitali dovranno pagare il 102,5% (anziché il 101%) dell’acconto fiscale Ires e Irap, mentre per l’anno venturo questo scenderà, salvo ulteriori cambiamenti, al 101,5%.

Con una crisi di liquidità che si fa sempre più pesante – conclude Bortolussi – come si può chiedere alle imprese questo ulteriore sforzo che per la parte eccedente al 100% altro non è che un prelievo forzoso? In uno Stato di diritto chi non onora i suoi debiti dovrebbe essere punito; in Italia, invece, chi non paga la fa franca e impone addirittura un appesantimento fiscale nei confronti dei propri creditori“.


“Salta la copertura della prima rata dell’Imu perché la Pubblica amministrazione non salda i suoi debiti nei confronti delle imprese? Allora a pagare il conto saranno queste ultime che, per gli anni di imposta 2013 e 2014, si vedranno aumentare di 1,5 punti percentuali gli acconti fiscali Ires e Irap. Insomma, oltre al danno la beffa.

E’ molto duro il commento del segretario della CGIA, Giuseppe Bortolussi, in merito al provvedimento che il Ministero dell’Economia ha fatto scattare ieri, in ottemperanza ad alcune disposizioni previste nel decreto dell’agosto scorso che, ricordiamo, aveva esentato i proprietari di prima casa al pagamento della prima rata dell’Imu.

Sul fronte delle coperture, questo decreto ha stabilito che nel caso in cui l’Erario entro il 30 novembre non fosse riuscito a incassare 925 milioni di euro di maggiori entrate derivanti dall’Iva versata dalle imprese a seguito dell’impegno della Pubblica amministrazione di pagare 7,2 miliardi di euro di debiti scaduti e altri 600 milioni di euro dalla sanatoria rivolta ai concessionari dei giochi, sarebbe scattata la cosiddetta “clausola di salvaguardia“, che, puntualmente, è arrivata ieri.

Dei 7,2 miliardi di euro che la Pa doveva saldare alle imprese ne sono stati pagati solo 2, mentre dalla sanatoria risulterebbe che l’Erario ne abbia incassati poco più della metà.

Pertanto, il Ministero dell’Economia, al fine di garantire la copertura del gettito mancante, ieri ha dato luogo ad un provvedimento che ha stabilito l’aumento degli acconti Ires e Irap in capo alle società di capitali e alle banche, nonché al probabile incremento, a partire dal 2015, delle accise sul gas, sull’energia elettrica e sulle bevande alcoliche.

Ora, per l’anno di imposta 2013 le società di capitali dovranno pagare il 102,5% (anziché il 101%) dell’acconto fiscale Ires e Irap, mentre per l’anno venturo questo scenderà, salvo ulteriori cambiamenti, al 101,5%.

Con una crisi di liquidità che si fa sempre più pesante – conclude Bortolussi – come si può chiedere alle imprese questo ulteriore sforzo che per la parte eccedente al 100% altro non è che un prelievo forzoso? In uno Stato di diritto chi non onora i suoi debiti dovrebbe essere punito; in Italia, invece, chi non paga la fa franca e impone addirittura un appesantimento fiscale nei confronti dei propri creditori“.