Forse la crisi economica non sarà solo un
tornante della storia dell’integrazione europea, ma la sua definitiva
pietra tombale. Una chiave interpretativa di questo genere appare forse
pessimistica, ma è innegabile che l’impostazione data al precedente
modello di integrazione avesse delle debolezze strutturali che hanno
indotto a degli errori gravi con conseguenze catastrofiche sull’economia
reale, come dimostra la crisi greca. Chi pensa che la nascita del fondo
lanciato il mese scorso per salvare i debiti sovrani assicuri il lieto
fine a quella che appariva davvero una “tragedia greca” si sbaglia e di
grosso. Lo dimostrano le conseguenze sui mercati finanziari e le scelte
politiche degli stati membri che ne sono scaturite:
1) In queste ultime settimane il cambio dell’euro sul
dollaro ha registrato una brusca discesa, dato di per sé affatto
negativo (favorirà le esportazioni), ma che potrebbe risultare da freno
alla crescita qualora il prezzo delle materie prime diventasse troppo
caro.
2) I governi europei appartenenti all’area euro hanno
annunciato gravi manovre per riassestare le finanze pubbliche,
scaricando sui cittadini i costi sobbarcati per salvare banche e imprese
sull’orlo dello sfascio negli ultimi due anni. In tal senso si avvera
pienamente la profezia di
Nouriel Roubini, Mr. Doom, che aveva profetizzato tre anni fa la “crisi perfetta”.
3) I paesi che ancora non sono all’interno dell’area
euro rallentano la loro marcia verso l’adesione alla moneta unica per
l’incapacità di soddisfare le condizioni imposte da Francoforte o per
opportunità politica (la Polonia, soltanto lontanamente sfiorata dalla
recessione, ha posticipato di due anni il suo ingresso nella moneta
unica). Per onor di cronaca, l’Estonia entrerà nella moneta unica il
prossimo anno, in controtendenza, ma per il piccolo stato baltico è una
scelta obbligata, visto il suo stretto legame economico con la Germania.
Per gli estoni la decrescita ha significato un raffreddamento,
l’inflazione e quindi la possibilità di soddisfare le condizioni di
adesione.
Perché si è arrivati a questa situazione? Le ragioni
sono principalmente due: scarsa governance economica e lassismo nei
controlli sulla stabilità delle finanze pubbliche. Il Patto di Stabilità
e Crescita, ideato come precondizione dell’Euro e fatto saltare in
tempo di vacche grasse da Germania e Francia nel 2003 per poter gestire
allegramente la spesa pubblica, ha fallito su entrambi i fronti. Alla
luce della crisi economica, non solo non si sono istituiti gli strumenti
per coordinare gli investimenti della spesa pubblica in funzione di
crescita e sviluppo (ad esempio finanziando le reti trans europee o il
bilancio comunitario con dei titoli di debito pubblico europeo o con un
prelievo fiscale diretto), ma si è permesso agli stati di far esplodere i
debiti pubblici senza alcun coordinamento.
La politica delle “briglie sciolte” autorizzata suo
malgrado dalla Commissione soltanto un anno fa, ha fatto esplodere il
debito pubblico britannico e francese (per non parlare di Grecia,
Portogallo o Spagna) e offerto la possibilità a quello italiano,
peraltro già gigantesco, di tornare a salire. Risultato: ecco tornati
fuori i Pigs, ovvero i quattro paesi da villaggio vacanze del Club Med
(Portogallo, Italia, Spagna e Grecia) buoni soltanto per essere
descritti come
“bordello”.
La Germania è certamente anch’essa colpevole per
questa situazione. La Merkel ha dimostrato un insensato egoismo
nell’aspettare sino all’ultimo a salvare la Grecia per ragioni di
convenienza elettorale e poi ha varato una manovra che scaricherà sui
partner europei i costi della ripresa. Come ben evidenziato da
Luigi Zingales,
la manovra tedesca rappresenta il consolidamento della strategia
“ognun-per-sé” o “si-salvi-chi-può”, perché la Germania, unico paese che
poteva spendere (o mantenere la spesa inalterata) e rilanciare
l’affannosa ripresa europea, ha preferito attuare una strategia
individualista di riduzione della spesa, che le garantirà un vantaggio
comparato nei confronti degli altri paesi europei, ma che porterà,
attraverso la deflazione, ad un enorme incremento del costo dei
risanamenti altrui, rinfocolando i dubbi sui debiti sovrani dei paesi
mediterranee.
Se non c’è alcun coordinamento della strategia
economica, un allineamento delle politiche fiscali, un comune percorso
di ammodernamento del comparto industriale e tecnologico, quale senso ha
condividere la moneta? Se questa è l’Europa, meglio auspicare il
ritorno alle valute nazionali. Perché, dovendo attuare la strategia
“ognun-per-sé”, molto meglio che ciascun paese possa disporre di tutti
gli strumenti - compresa la politica monetaria - per impostare la sua
propria strategia economica, libero da vincoli ed inutili orpelli.
Le soluzioni per uscirne però esistono. Di governance economica ne parlano un po’ tutti e a sorpresa il nostro
Mr. Wolf
Van Rompuy, a capo di una task force sul tema, lo ripete come un mantra
in ogni suo discorso. A suo avviso il fondo salva-debiti potrebbe anche
aumentare. C’è chi propone che la Banca centrale compri il debito
sovrano. C’è chi auspica che i mercati possano comprare debito emesso
dalla Banca Centrale. Se si arrivasse alla creazione di un meccanismo
stile Fmi all’interno dell’Ue senza toccare i trattati (argomento
tornato ad essere un tabù), sarebbe la quadratura del cerchio.
E per chi sgarra? L’idea è di permettere alla
Commissione di verificare i dati sottoposti dagli stati incrociandoli
con quelli di Eurostat, magari con l’ausilio della Corte dei Conti
europea. In questo modo si eviterebbero nuovi imbroglioni dei bilanci.
C’è chi suggerisce di rafforzare l’agenzia europea sul controllo dei
mercati (la neonata Consob europea) con poteri di rating alternativi a
quelli delle agenzie americane che hanno giocato a diffondere il panico
sui debiti europei.
In un mondo che riprende a crescere, in cui i paesi in
via di sviluppo ritornano a correre, e le “nuove” potenze stanno
emergendo ad una velocità impressionante, l’Europa è la vittima
sacrificale, l’anello debole del nuovo, confuso ordine mondiale. Lo è
sotto molteplici punti di vista. Da un punto di vista puramente
geopolitico, l’assenza di una politica di sicurezza, con una strategia
condivisa, si fa pesante. L’assenza di un esercito, di una condivisione
delle tecnologie militari, può far aspirare tutt’al più ad un Europa in
formato “grande Svizzera”. Sotto un profilo politico, la frammentazione
tanto a livello comunitario, quanto a livello degli stati nazionali
(proprio in questi giorni l’Olanda si è aggiunta alla lista dei paesi
praticamente ingovernabili per frammentarietà) rende davvero
difficoltosa la governabilità del vecchio continente.
Tutto questo però non basterà senza un nuovo modello di crescita. Una nuova visione del sogno europeo che riparta dalle
ceneri di Spinelli,
che vada oltre alla retorica dell’europeismo offrendo un modello
alternativo di crescita basato su sviluppo sostenibile e
digitalizzazione tecnologica. Un modello che aggiorni drasticamente il
vecchio sistema di welfare all’integrazione degli immigrati,
all’invecchiamento della popolazione e al protagonismo delle donne nella
società. Nei fatti un modello che possa competere con il mito americano
ormai sbiadito, ma ancor più con l’arrembante e inarrestabile ascesa
dei
paesi Bric per i quali la recessione non è altro che un rumore di sottofondo.
(A cura di Fabio Mineo e Matteo Minchio)