lunedì 2 dicembre 2013

L’Europa al capolinea?


 

Il sogno europeo è ormai una semplice illusione? L’individualismo della Germania e l’Europa anello debole del nuovo ordine mondiale. Oltre la retorica dell’europeismo.

Forse la crisi economica non sarà solo un tornante della storia dell’integrazione europea, ma la sua definitiva pietra tombale. Una chiave interpretativa di questo genere appare forse pessimistica, ma è innegabile che l’impostazione data al precedente modello di integrazione avesse delle debolezze strutturali che hanno indotto a degli errori gravi con conseguenze catastrofiche sull’economia reale, come dimostra la crisi greca. Chi pensa che la nascita del fondo lanciato il mese scorso per salvare i debiti sovrani assicuri il lieto fine a quella che appariva davvero una “tragedia greca” si sbaglia e di grosso. Lo dimostrano le conseguenze sui mercati finanziari e le scelte politiche degli stati membri che ne sono scaturite:
1) In queste ultime settimane il cambio dell’euro sul dollaro ha registrato una brusca discesa, dato di per sé affatto negativo (favorirà le esportazioni), ma che potrebbe risultare da freno alla crescita qualora il prezzo delle materie prime diventasse troppo caro.
2) I governi europei appartenenti all’area euro hanno annunciato gravi manovre per riassestare le finanze pubbliche, scaricando sui cittadini i costi sobbarcati per salvare banche e imprese sull’orlo dello sfascio negli ultimi due anni. In tal senso si avvera pienamente la profezia di Nouriel Roubini, Mr. Doom, che aveva profetizzato tre anni fa la “crisi perfetta”.
3) I paesi che ancora non sono all’interno dell’area euro rallentano la loro marcia verso l’adesione alla moneta unica per l’incapacità di soddisfare le condizioni imposte da Francoforte o per opportunità politica (la Polonia, soltanto lontanamente sfiorata dalla recessione, ha posticipato di due anni il suo ingresso nella moneta unica). Per onor di cronaca, l’Estonia entrerà nella moneta unica il prossimo anno, in controtendenza, ma per il piccolo stato baltico è una scelta obbligata, visto il suo stretto legame economico con la Germania. Per gli estoni la decrescita ha significato un raffreddamento, l’inflazione e quindi la possibilità di soddisfare le condizioni di adesione.
Perché si è arrivati a questa situazione? Le ragioni sono principalmente due: scarsa governance economica e lassismo nei controlli sulla stabilità delle finanze pubbliche. Il Patto di Stabilità e Crescita, ideato come precondizione dell’Euro e fatto saltare in tempo di vacche grasse da Germania e Francia nel 2003 per poter gestire allegramente la spesa pubblica, ha fallito su entrambi i fronti. Alla luce della crisi economica, non solo non si sono istituiti gli strumenti per coordinare gli investimenti della spesa pubblica in funzione di crescita e sviluppo (ad esempio finanziando le reti trans europee o il bilancio comunitario con dei titoli di debito pubblico europeo o con un prelievo fiscale diretto), ma si è permesso agli stati di far esplodere i debiti pubblici senza alcun coordinamento.
La politica delle “briglie sciolte” autorizzata suo malgrado dalla Commissione soltanto un anno fa, ha fatto esplodere il debito pubblico britannico e francese (per non parlare di Grecia, Portogallo o Spagna) e offerto la possibilità a quello italiano, peraltro già gigantesco, di tornare a salire. Risultato: ecco tornati fuori i Pigs, ovvero i quattro paesi da villaggio vacanze del Club Med (Portogallo, Italia, Spagna e Grecia) buoni soltanto per essere descritti come “bordello”.
La Germania è certamente anch’essa colpevole per questa situazione. La Merkel ha dimostrato un insensato egoismo nell’aspettare sino all’ultimo a salvare la Grecia per ragioni di convenienza elettorale e poi ha varato una manovra che scaricherà sui partner europei i costi della ripresa. Come ben evidenziato da Luigi Zingales, la manovra tedesca rappresenta il consolidamento della strategia “ognun-per-sé” o “si-salvi-chi-può”, perché la Germania, unico paese che poteva spendere (o mantenere la spesa inalterata) e rilanciare l’affannosa ripresa europea, ha preferito attuare una strategia individualista di riduzione della spesa, che le garantirà un vantaggio comparato nei confronti degli altri paesi europei, ma che porterà, attraverso la deflazione, ad un enorme incremento del costo dei risanamenti altrui, rinfocolando i dubbi sui debiti sovrani dei paesi mediterranee.
Se non c’è alcun coordinamento della strategia economica, un allineamento delle politiche fiscali, un comune percorso di ammodernamento del comparto industriale e tecnologico, quale senso ha condividere la moneta? Se questa è l’Europa, meglio auspicare il ritorno alle valute nazionali. Perché, dovendo attuare la strategia “ognun-per-sé”, molto meglio che ciascun paese possa disporre di tutti gli strumenti - compresa la politica monetaria - per impostare la sua propria strategia economica, libero da vincoli ed inutili orpelli.
Le soluzioni per uscirne però esistono. Di governance economica ne parlano un po’ tutti e a sorpresa il nostro Mr. Wolf Van Rompuy, a capo di una task force sul tema, lo ripete come un mantra in ogni suo discorso. A suo avviso il fondo salva-debiti potrebbe anche aumentare. C’è chi propone che la Banca centrale compri il debito sovrano. C’è chi auspica che i mercati possano comprare debito emesso dalla Banca Centrale. Se si arrivasse alla creazione di un meccanismo stile Fmi all’interno dell’Ue senza toccare i trattati (argomento tornato ad essere un tabù), sarebbe la quadratura del cerchio.
E per chi sgarra? L’idea è di permettere alla Commissione di verificare i dati sottoposti dagli stati incrociandoli con quelli di Eurostat, magari con l’ausilio della Corte dei Conti europea. In questo modo si eviterebbero nuovi imbroglioni dei bilanci. C’è chi suggerisce di rafforzare l’agenzia europea sul controllo dei mercati (la neonata Consob europea) con poteri di rating alternativi a quelli delle agenzie americane che hanno giocato a diffondere il panico sui debiti europei.
In un mondo che riprende a crescere, in cui i paesi in via di sviluppo ritornano a correre, e le “nuove” potenze stanno emergendo ad una velocità impressionante, l’Europa è la vittima sacrificale, l’anello debole del nuovo, confuso ordine mondiale. Lo è sotto molteplici punti di vista. Da un punto di vista puramente geopolitico, l’assenza di una politica di sicurezza, con una strategia condivisa, si fa pesante. L’assenza di un esercito, di una condivisione delle tecnologie militari, può far aspirare tutt’al più ad un Europa in formato “grande Svizzera”. Sotto un profilo politico, la frammentazione tanto a livello comunitario, quanto a livello degli stati nazionali (proprio in questi giorni l’Olanda si è aggiunta alla lista dei paesi praticamente ingovernabili per frammentarietà) rende davvero difficoltosa la governabilità del vecchio continente.
Tutto questo però non basterà senza un nuovo modello di crescita. Una nuova visione del sogno europeo che riparta dalle ceneri di Spinelli, che vada oltre alla retorica dell’europeismo offrendo un modello alternativo di crescita basato su sviluppo sostenibile e digitalizzazione tecnologica. Un modello che aggiorni drasticamente il vecchio sistema di welfare all’integrazione degli immigrati, all’invecchiamento della popolazione e al protagonismo delle donne nella società. Nei fatti un modello che possa competere con il mito americano ormai sbiadito, ma ancor più con l’arrembante e inarrestabile ascesa dei paesi Bric per i quali la recessione non è altro che un rumore di sottofondo.
(A cura di Fabio Mineo e Matteo Minchio)

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