giovedì 12 dicembre 2013

La solitudine è il male della nostra società

di Marco Lodoli


Zygmunt Bauman, il pensatore che ha trovato l’aggettivo giusto per definire il nostro tempo, la nostra società, il nostro modo di amare e di essere, “liquidi” perché incapaci di coaugularsi in sentimenti e pensieri forti, in sicurezze e tradizioni, in un breve saggio recente, “Lo spirito e il clic”, sostiene che gli uomini contemporanei sono marchiati da tre paure vaghe e convergenti: l’incertezza, l’ignoranza, l’umiliazione.

Incertezza nel “trovare la nostra strada nel mondo”, ignoranza perché non comprendiamo più le connessioni tra gli eventi, umiliazione perché sentiamo che la nostra vita è nelle mani di altri, di potenze occulte che ci guidano senza che noi possiamo fare nulla per decidere liberamente. Il risultato di tutto ciò è un senso di solitudine, simbolica e reale, ben definito nel titolo di un libro del sociologo Robert Putman: “Bowling alone”, ovvero andare a giocare a bowling da soli.

Siamo tutti soli davanti a quei birilli lontani, soli con una palla in mano, la musica che ci rintrona, il fast food alle spalle, la strisciante sensazione che la nostra vita non serva a niente, neppure a noi stessi. Forse noi italiani non siamo ancora arrivati a questa polverizzazione sociale, la famiglia, gli amici, il quartiere ci difendono dallo sgomento della solitudine, possiamo ancora iscriverci a un sindacato o a una scuola di tango, frequentare la parrocchia dietro casa o un corso di cucina. Però anche noi ormai abbiamo l’impressione che lo sfarinamento è in corso, nel tempo della crisi ognuno investe su se stesso, sui propri figli, cerca di prendere le posizioni migliori in pista, avverte gli altri essenzialmente come avversari.

Già nelle scuole elementari si percepisce la natura agonistica della società contemporanea: i bambini vengono iscritti a pianoforte o a calcio, a inglese o a tennis non tanto per completare una formazione caratteriale, quanto per accumulare punti, per potenziare la creatura, per darle qualche asso in più da calare sul tavolo del futuro. Negli spogliatoi della piscina che frequento c’è silenzio, ognuno svuota e riempie la sua sacca, pensa a quante vasche potrebbe fare, prepara il fisico a qualche scontro ideale, e nessuno parla con nessuno. Questo è il primo problema della nostra vita attuale: ogni goccia deve ritrovare il senso della corrente collettiva, ogni briciola, se non vuole seccarsi sulla tovaglia sporca, deve ricomporre la pagnotta comune.

Siamo parte di un tutto, ma ce lo siamo dimenticati, o meglio: la società occidentale, formata totalmente sulle regole del mercato, tende a scomporsi in atomi rivali, in solitudini minacciose perché minacciate. Chi ha i soldi spinge i figli su percorsi europei, abbandona cinicamente la barca che si riempie d’acqua, coltiva una solitudine vincente. Chi annaspa tra le onde tira calci a casaccio, grida, si dispera, teme che non ci sarà spiaggia né altro approdo. Cambiano i governi, cambiano i ministri, ma non cambia l’incapacità di vivere insieme, e solidarietà, compassione, collaborazione sono parole moribonde. Eppure soprattutto questo andrebbe insegnato ai bambini e ai ragazzi: che nessun uomo è un’isola, che la vita non è fatta per distanziare gli altri, come in una corsa campestre tra fango e salite. Chi parte da solo, corre da solo e arriva da solo ha comunque già perso.   

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